Costume

Lettera a un buonista del terzo millennio

7 Aprile 2019

Caro collega,

so che ti sei indignato quanto me quando hai visto le manifestazioni di Torre Maura; so che inorridisci quando leggi nei social le invettive contro i migranti e so che anche a te cedono i nervi quando senti la proverbiale frase: io non sono razzista, ma.

Però c’è una cosa che vorrei spiegarti: chi dice quella frase, nove volte su dieci sta dicendo la verità. C’è infatti una differenza, sottile ma fondamentale, che bisogna saper riconoscere: quella tra uno xenofobo e un razzista.

Gli abitanti delle periferie disagiate delle nostre città, o gli anziani dei tranquilli quartieri borghesi, sono semplicemente xenofobi, cioè impauriti da chi viene da fuori. Sanno bene che non tutti gli stranieri sono criminali; ma, non potendo distinguere gli elementi pericolosi nel mucchio, preferiscono non correre nessun rischio e rifiutarne in blocco l’arrivo – che spesso è una involontaria irruzione – nel proprio mondo già traballante.

Conosco bene gli xenofobi perché gli abitanti della mia provincia, in buona parte incastonata tra le montagne, lo sono per natura. Hanno un’istintiva diffidenza per chi ha un cognome non autoctono o un’intonazione forestiera e una congenita timidezza verso gli estranei, che rende necessaria una paziente opera di gentilezza e affidabilità per superare la barriera. Una volta conquistati, i miei concittadini si dimostrano persone generose e solidali, la cui amicizia dura per decenni, anche a grande distanza; ma devono essere loro ad ammettere i nuovi arrivati nella propria cerchia, perché ci tengono ad avere il controllo di chi va e chi viene dalla loro casa, come recita una famosa canzone dialettale.

L’errore che commettiamo noi, caro collega buonista, è esattamente questo: confondere la diffidenza e la paura – che sono sentimenti brutti ma certamente umani, comprensibili e a volte molto giustificati – con il razzismo, cioè un’elaborazione ideologica che considera una certa categoria umana (i Rom, i ne*ri) come ontologicamente inferiore. Il razzismo si nutre di xenofobia: non potrebbe germinare, se non potesse mettere radici nel terreno fertile del sospetto e del rifiuto verso chi non è dei nostri. Ma è qualcosa di ben diverso da quei vaghi sentimenti di ripulsa: è una teorizzazione, che funziona perché li giustifica e li rende moralmente accettabili; soprattutto, è gratificante perché garantisce una forma di superiorità a chi non ha proprio nulla di cui inorgoglirsi, se non il colore della propria pelle.

Sappiamo bene qual è lo scopo delle destre che cavalcano la xenofobia e coltivano il razzismo: addestrare la popolazione all’idea che una certa categoria umana, identificata come nemica, può essere privata dei propri diritti fino al punto di essere espulsa, o addirittura soppressa. E’ questa la necessaria premessa per un regime autoritario che voglia prosperare grazie al consenso delle masse: accanto alla repressione (che non manca mai) deve svilupparsi la volontaria adesione di larghi strati di cittadini, convinti che il governo sia in grado di individuare ed eliminare i pericoli che minacciano il Paese e che ogni mezzo gli sia lecito, anche il più violento.

E’ questa, caro collega, l’operazione che dovremmo impedire: la trasformazione della paura in disprezzo, della diffidenza in discriminazione. Il passaggio intermedio, lo sappiamo perfettamente, è la spersonalizzazione delle categorie bersaglio: gli individui che vi appartengono non devono più essere percepiti come singoli, potenzialmente buoni o cattivi, ma come parti di un tutto indistinto e irrimediabilmente negativo, privo di umanità e perciò inferiore e sacrificabile senza alcuno scrupolo. A questo serve la propaganda martellante che addita ogni malefatta compiuta da un Rom o da un immigrato, insistendo soprattutto sul casi di cronaca più sconvolgenti, mettendo in mostra gli aspetti più orrendi della vicenda: a inoculare nell’opinione pubblica l’idea che loro (e solo loro) sono dei mostri disumani. A questo mirano i discorsi qualunquisti che sottolineano la sporcizia, la maleducazione, la bestialità di queste tipologie di persone (che in realtà sono conseguenza della loro povertà e emarginazione sociale): a dipingerle come animali, non esseri umani, quindi non dotati di dignità e di diritti.

Non possiamo più illuderci di vincere questa battaglia con le armi dell’indignazione morale, del sermoncino basato sui migliori valori culturali o religiosi (che, ovviamente, io condivido con te), della coreografica manifestazione di solidarietà: così, in realtà, siamo già rinchiusi nella nostra trincea, inermi, forse impegnati a difendere noi stessi dall’assalto del razzismo al quale siamo più vulnerabili di quanto ci piaccia ammettere.

E’ altro ciò che dobbiamo fare per evitare che la sua mala pianta attecchisca là dove covano il timore e il risentimento verso l’estraneo. Innanzitutto occorre esserci: non il giorno dopo, come è accaduto a Torre Maura, ma nel momento stesso in cui la crisi sta avvenendo, a fronteggiare coloro che soffiano cinicamente sul fuoco dell’intolleranza, a provare a spegnere l’incendio. Occorre anzi esserci prima, per esigere che le istituzioni facciano correttamente la propria parte: condividendo con i residenti le modalità degli inserimenti, o quantomeno informandoli con il dovuto anticipo; rassicurandoli sui loro timori più diffusi, spesso ragionevoli (ad esempio, facendo interloquire chi si preoccupa perché i migranti portano le malattie con il medico che li ha visitati); monitorando successivamente la situazione e intervenendo prontamente in caso di criticità.

Sappiamo benissimo che questo però non basta: nella migliore delle ipotesi, in questo modo si può ottenere una neutra convivenza, sempre messa a rischio da possibili “incidenti”. Occorre soprattutto costruire, in ognuna di queste realtà, relazioni positive tra chi c’era e chi è arrivato, facendosi aiutare dagli stranieri già integrati che possono agire da mediatori.  Solo ri-umanizzando i rapporti si può evitare che sorgano muri insormontabili tra le comunità e si possono disinnescare le tensioni prima che esplodano.

Anche così, il problema non sarà risolto una volta per tutte: perché il desiderio di mantenere il proprio mondo sempre uguale a sé stesso è profondamente umano, perché è spontaneo il rifiuto dei problemi altrui quando ci si sente deboli; perché ci sarà sempre chi, cinicamente, insinua il dubbio che ogni cambiamento è una terribile minaccia… dobbiamo imparare a perseverare dal Buonista dell’anno zero, quello famoso, che sapeva bene che la lotta contro la nostra pochezza umana non finirà mai.

Spesso siamo incapaci di riconoscere in noi stessi questa pochezza, che però esiste e ci porta a trincerarci dietro i nostri buoni sentimenti, le nostre nobili parole, la nostra generosità monetaria, le nostre marce di solidarietà: tutte cose bellissime, ma teoriche, che ci risparmiano la fatica di sporcarci le mani in quelle realtà che con tanta sicumera giudichiamo e condanniamo. Impariamo a compatire i limiti altrui come tolleriamo i nostri: sarebbe già un grandissimo primo passo verso quell’armonia che, a parole, diciamo di voler costruire.

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