Costume
L’esercito del selfie
La domenica mattina, poco lontano da dove abito, in un capannone industriale, si riuniscono persone, quasi tutte di colore, che penso facciano parte di una chiesa che non so quale confessione pratichi. Dalla via si sentono provenire i canti durante quella che immagino sia una funzione che richiama fedeli non solo da Lodi ma anche dai paesi vicini.
Passando lì vicino ho notato due ragazze in procinto di entrare. Una aveva in mano lo smartphone che ha allontanato con un gesto del braccio per inquadrarsi e scattare un selfie, non prima di aver assunto la necessaria espressione che ormai viene definita da tutti “bocca a culo di gallina”.
Non ho mai capito perchè, per un autoscatto ben riuscito da condividere sui social, sia diventato necessario assumere quella espressione facciale. Potrebbe essere per immortalare un bacio da mandare idealmente a tutti quelli che guarderanno quella foto. Sta di fatto che il selfie è l’evoluzione, in epoca di condivisione, di quello che un tempo era l’autoscatto con la vecchia cara macchina fotografica. Ma se ai tempi avessimo assunto un’espressione del genere, gli amici che erano con noi (e già, ai tempi l’autoscatto era quasi sempre collettivo) si sarebbero preoccupati e avrebbero pensato immediatamente a una paresi facciale con conseguente corsa verso il pronto soccorso.
Sarebbe interessante capire chi e quando è stato il primo selfista che ha fatto la bocca a culo di gallina, ma da quando c’è internet risalire alla primogenitura di un gesto, di una battuta, di uno scritto, è diventata un’impresa ardua, se non impossibile.
Sta di fatto, però, che scattarsi un selfie – leggo che il termine è entrato ufficialmente nell’Oxford Dictionary nel 2013 – è diventato per alcuni una vera e propria mania. Tanto che basta fare una ricerca per scoprire che sono molti gli psicologi che stanno studiando il fenomeno, collegandolo al narcisismo patologico e al machiavellismo (per Franco Angeli è uscito “La società dei selfie – Narcisismo e sentimento di sé nell’epoca dello smartphone” di Luciano Di Gregorio, che affronta in maniera chiara e completa l’argomento).
Non sono uno psicologo e non posso avventurarmi in territori che non mi appartengono. Ma, da utente di Facebook (anche se il regno per antonomasia dei selfie è Instagram) voglio fare delle riflessioni. Le stesse che faccio quando, scorrendo i social, vedo i selfie di persone che sono tra i miei contatti.
Una premessa è d’obbligo. A differenza di tanti che “malmenano” virtualmente coloro che utilizzano i social in maniera diversa dalla loro, sono per la più completa libertà di utilizzo degli stessi. Se qualcuno ha scelto di avere un profilo di coppia, non vedo, per esempio, perché dovrei inorridire. Se altri utilizzano Facebook solo per condividere gattini e cani, chi sono io per poterli criticare? Ognuno, come nella vita reale, ha degli interessi che travasa nelle nuove modalità di relazione offerte dai social. L’unica cosa che non sopporto sono quelli che condividono notizie esageratamente false, provenienti da fonti farlocche, che insistono su argomenti di “pancia” come l’odio verso gli immigrati o l’avversario politico. Qui, però, entriamo in un altro terreno e quello che sinceramente dispiace è che la mancanza di spirito critico non conosce distinzioni di sesso, razza e, soprattutto, livello culturale. Tra i miei contatti c’è una persona laureata che continua a condividere notizie farlocche senza porsi il minimo dubbio del perché la stessa notizia non sia pubblicata su tutti gli altri giornali. Anzi, questa diventa un’aggravante per indicare tutti gli altri organi di informazione come “asserviti” al potere. Non a caso tutti i post cominciano con l’incipit “quello che non ti diranno mai”. L’esempio più clamoroso, quello di una votazione del Senato che avrebbe conservato i privilegi dei senatori: bastava fare la somma per capire che si trattava di una bufala. Sommando i numeri riportati, i senatori cattivi erano più di 400. Peccato che i senatori della Repubblica Italiana siano 315 (ma qui c’entra anche il mancato studio dell’educazione civica).
Ma torniamo ai selfie. Uno dei tormentoni di quest’estate, trasmesso da tutte le radio, si intitola “L’esercito del selfie” (ho chiesto a una collega: la cantano tale Lorenzo Fragola e Arisa).
Chi sono i “soldati” di questo esercito? Non indaghiamo gli adolescenti (penso che a tal proposito la più titolata a parlarne sia la mia amica Maura Manca, psicologa e presidente dell’Osservatorio nazionale sull’adolescenza).
Quello che sorprende è l’utilizzo forsennato dell’autoscatto social da parte di persone adulte (femmine o maschi pari sono).
Qual è il bisogno che spinge a postare in continuazione proprie foto, mettendo ad esempio in secondo piano il luogo che fa da cornice? Ai miei tempi l’autoscatto lo facevi davanti al Colosseo (e spesso, fino a quando capivi come preparare la macchina fotografica e correvi a posizionarti con gli altri amici, nell’inquadratura neppure ci entravi). La centralità era il luogo che visitavi, il posto dove eri andato in vacanza, che poi mostravi agli amici. Adesso sfido chiunque a capire dove è stato scattato un selfie se la foto postata non è accompagnata dalla geolocalizzazione. Il selfie ha spostato tutta l’attenzione, o piuttosto la richiesta di attenzione, su se stessi (e questa è la componente narcisistica). Attraverso i selfie proiettiamo un’immagine di noi stessi come vorremmo essere percepiti dagli altri (qualche psicologo mi corregga, ma esiste una percezione di sé e una percezione altra di noi). Ma molto spesso l’immagine proiettata, che pretendiamo essere naturale, è più falsa di una banconota da sette euro. A volte guardo un selfie e la mente corre a quello che un tempo si richiedeva allo sportello dell’ufficio anagrafe del Comune (non so se esista ancora): il certificato di esistenza in vita.
Esistiamo solo nel momento in cui proiettiamo verso gli altri un’immagine di noi, e quello che dovrebbe essere un momento personale (che cessa di esserlo nel momento stesso in cui decidiamo di condividerlo) diventa invece una ricerca di approvazione sociale. “Ma stai benissimo!”, “Sei bellissima!”, “Che fusto!”: andiamo alla ricerca di commenti che appaghino il nostro Ego, ma che tendiamo falsamente a sminuire, dissimulando il piacere che ricevere i complimenti ci procura.
I selfie-addicted, i malati di selfie (ogni cosa o comportamento abusato diventa patologia da DSM, il manuale dei disturbi mentali) perdono il contatto con la realtà. La loro vita da reale si trasferisce nel campo del virtuale dove è possibile costruire l’immagine di sé desiderata. Provate a mettervi nella stessa posizione di un vostro selfie in ufficio davanti al vostro capo: non vi salva dal giusto licenziamento neppure la Cgil.
Alcune settimane fa in piazza, al tavolino di un bar, ho visto una signora che è tra i miei contatti su Facebook. Seduta con un’amica, le si è avvicinato un ragazzo (che conosceva). Convenevoli saltati a piè pari (un tempo almeno per buona educazione avrebbe chiesto “Come stai?) E subito in posa per un selfie a tre. Con, ovviamente, annessa bocca a culo di gallina. Provate a immaginare la stessa scena riportandola a soli venti anni fa. Incontravi una persona e al posto di parlarci la facevi mettere in posa per un autoscatto. Lo avete mai fatto?
Ultima considerazione sul selfie con finalità consolatorie. Si postano immagini con faccine tristi in modo che qualcuno chieda cosa sia successo e commenti in maniera, appunto, consolatoria. Quello che si cerca è l’attenzione degli altri. Sedute in riva al mare (ma poi, come cazzo fate a fare i selfie riprendendovi di spalle? Avete un fotografo che vi segue passo passo come foste Belen?), con magari postata una citazione colta sul mare. Che, abbiate il coraggio di ammetterlo almeno una volta nella vita, avete appena trovato digitando su Google “aforismi sul mare”. Tanto i social sono pieni di poeti, scrittori e pensatori. Di idraulici e falegnami neppure l’ombra.
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