Costume
Socialmedia, cosa c’è dietro l’ostentazione del “buon cibo”
Ognuno, ormai, è oggetto dell’azione dei vari social media, sia quelli su internet che televisvi e giornalistici. Questo, piaccia o non piaccia è un dato di realtà. Nella spiegazione di questo fenomeno si presentano le persone come vittime innocenti ma senza difese dell’azione martellante della pubblicità, della partecipazione forzata sia nella lettura che dell’intervento nei vari siti social, della supina esposizione a trasmissioni televisive di tutti i tipi dagli intrattenimenti, alle serie a puntate, alle manifestazioni sportive, ai documentari divulgativi di tipo storico, scientifico ed infine ai dibattiti su eventi di qualsiasi tipo: politici, di cronaca nera e di fatti di costume. Le persone di cosidetto buon senso accusano questa dipendenza acritica ma poi essi stessi ne restano coinvolti. E poi questa continua e pressante azione comunicativa viene sfruttata senza scrupolo nei conflitti, soprattutto politici per i quali diventa più importante lo scambio reciproco accusatorio e spesso anche offensivo nelle rapide comunicazioni sui social più che nelle ‘serie’ dichiarazioni ufficiali e nei ponderati articoli giornalisti.
In questa situazione appare ferma una convinzione critica e cioè che le persone siano soggetti passivi di questi meccanismi sociali. Ne sono vittima. Ora, però bisognerebbe fare qualche osservazione al proposito. In linea generale il riconoscimento della passività, della mancanza di difesa, nella mancanza di reazione appare continuamente e spesso nel passato e nel presente drammaticamente. Cioè ci sono continuamente le vittime dell’azione altrui. Ma possiamo utlizzare lo stesso paradigma anche per l’esposizione ai social media e ai media in generale? Se utilizziamo le solite ipotesi psicologiche (come al solito, noiosamente proiettate nella prima infanzia), potremmo affermare, più o meno metaforicamente che il bambino nei primissimi periodi infantili è soggetto all’azione di altri (tipo mamma ecc.), che in modo totalitario lo nutrono, lo maneggiano fisicamente, lo riempiono di espresssioni emozionali per lo più di affetto (per lo più…). Quindi si rafforza anche psicologicamente l’attitudine alla passività. E questa ce la portiamo dietro, sapientemente mascherata, anche nella vita adulta e viene percepita qualche volta, criticamente, dagli altri ( solito esempio delle univoche o reciproche pretese di passività nelle coppie con tutto quello che segue: cioè c’è la gara a chi occupa per primo o per prima la posizione infantile di pretesa passiva). Quindi i vari apparati social media e altri avrebbero buon gioco nell’infantilizzazione adulta e quindi nella dipendenza, nella continuità coatta all’esposizione. A questo proposito si è fatto riferimento all’analogia con la tossicodipendenza e simili. Quindi il bambino, usando la metafora della primissima infanzia , diventa passivo-dipendente . Però ad un certo momento il bambino non può più tollerare i momenti reali nei quali, per ovvi motivi,tutte queste attività di accudimento, vengono anche momentaneamente sospese.Su questo fatto sembra che ci sia un accordo fra noi addetti al mestiere, che si formino varie formazioni reattive dall’avidità anzitutto, al risentimento per chi ci trascura,sia pure per poco, alla costruzione di un mondo fantastico-allucinatorio che compensi la frustrazione (forse è qui che nascono o si rafforzano le qualità intelletive e creative.). Tornando al periodo adulto gli stessi meccanismi potrebbero spiegare da un lato la dipendenza estrema a questo “alimento” virtuale che i social ci dann0 e e dall’altro lato l’emergere di un’avidità frenetica di aggressività e di ricerca spasmodica del “cibo” mancante o non più soddisfacente. Il continuo scorrere sui social alla ricerca di interventi scritti ed anche visivi o la compulsione ad intervenire noi stessi, danno l’idea di un attivismo che capovolge la dipendenza passiva originale. E televisivamente il frenetico utilizzo dello zapping e cose simili. Se nella passività soddisfatta la mamma continua a darci buone cose da mangiare e amorosi gesti di affetto, quando questo, per ragioni varie, diventa carente, l’insaziabilità avida ci costringe a diventare attivi, alla ricerca del “buon cibo”. E se questo, aldilà degli aspetti reali, diventasse anche una regola per altre attività umane?
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