Costume

La “sindrome della zarina”, ovvero il lato ermetico del selfie

28 Aprile 2020

La parola “selfie”, deriva dalla lingua inglese self-portrait (auto ritratto), e inizia a diffondersi agli inizi del 2000 con la diffusione dei social network. In pochissimo tempo, la condivisione delle fotografie diventa un’autentica moda su Facebook, Instagram, Twitter e altri social. Fu lo scrittore Jim Carrie a coniarla. Nel 2010, con l’uscita dell’iphone4, il primo cellulare ad avere la fotocamera anteriore, il selfie diventa una mania. Nessuno si sottrae a un autoscatto, dalle persone comuni ai politici e ai grandi personaggi della cultura e dello spettacolo, fino ai capi di Stato di tutto il mondo. Finanche Papa Francesco è stato incorniciato in un selfie.

Ma, quando è stato scattato il primo selfie? E da chi? Molti studiosi hanno confermato che il primo selfie della storia risale a Robert Cornelius, pioniere americano della fotografia internazionale. Però, la prima a farsi un selfie vero e proprio, con la sua Kodak Brownie, all’inizio del ‘900, fu Anastasjia Nikolaevna Romanova, figlia dell’ultimo zar di Russia, Nicola II. Un bel giorno, la fanciulla, nella sua cameretta ottocentesca, prese l’aggeggio, e davanti allo specchio scattò la foto di se stessa, che potete vedere nell’immagine a corredo dell’articolo. Pare che la zarina scattasse ripetutamente autoscatti di fronte a grandi specchi e in diverse pose e ambientazioni.

Nel dicembre del 1920, invece, a New York, nacque il primo selfie di gruppo, realizzato da Joe Byron, Pirie MacDonald, Colonel Marceau, Pop Core e Ben Falk, che erano i cinque Lord della Byron Company. Mentre, era il era il 1934, quando due fidanzati, probabilmente in riva a un lago, si fanno un selfie. La particolarità è che l’uomo della coppia ha legato la macchina fotografica al suo bastone di legno. Voilà, prende corpo in quel momento il primo estensibile per selfie.

La psicologia legata all’uso smisurato dei selfie resta, però, un argomento che può essere sviscerato dagli specialisti. Qui si può solo accennare, anche con un divertito atteggiamento di superficialità, alle varie tipologie di selfisti. Ce ne sono per tutti i gusti; a me piacciono particolarmente le immagini che dispensano sorrisi. I peggiori, sono quelli che, come il sottoscritto, dietro a una compostezza di base lasciano trapelare una ossessiva e ricercata cura dell’espressione sintomatica, rivelatrice di un perché, o di una intenzione da indagare. E, pertanto, rientrano nella categoria dei “grevi” I casi “gravi”, invece, postano di continuo, ininterrottamente, e non solo selfie, convinti come sono che per diventare un influencer bisogna porre molta cura e attenzione al “sé pubblico”, come se il social profilo corrispondesse al book professionale di un personaggio, e non alla semplice identità di una persona pronta a interagire con altre.

In questi casi, prestare maggiore attenzione al “sé sconosciuto” sarebbe un toccasana. Si ha, talvolta, la netta sensazione che abbiamo sviluppato un concetto talmente limitato della felicità e della capacità personale, che le identifichiamo con il numero dei like. E, quindi, quanto più ci ossessioniamo  con la ricerca spasmodica dei like, tanto più ci dimostriamo insicuri. Ed è questo il vero significato che esprimono tanti selfie e post. Dietro l’uso eccessivo dei social c’è il sintomo di un narcisismo che tende a nascondere l’ansia di essere imperfetti, e quel che è peggio, inadatti a ricevere amore per quello che realmente rappresentiamo.

Mi piacerebbe che gli psicologi, i sociologi e gli antropologi, indagando il fenomeno, per tanta parte inesplorato, fossero solleticati dalla definizione di “Sindrome della zarina”, da definirsi con un linguaggio più proprio e consono a uno studio scientifico. Qui, si fa solo letteratura, pur sempre un magnifico campo di ricerca estetica e psicologica, ma non scienza.

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