Costume

La periodica commedia dell’ Happy New Year

13 Dicembre 2019

 

 “Con quale desiderio Lei entra nell’anno nuovo?” Con il desiderio di essere risparmiato da simili domande.

Karl Kraus

 

Augurarsi un “Felice anno nuovo” è una tradizione che travalica i confini politici di tutti i paesi, anche se l’anno nuovo non inizia per tutti nello stesso giorno. Molti paesi hanno calendari diversi e così è stato anche nella storia europea dei secoli passati, dove, tra Inghilterra, Spagna e Francia o Firenze e Venezia, eccetera, date diverse indicavano l’inizio di un nuovo anno. Generalmente, oggi, si tende a considerare Capodanno il 1° gennaio, secondo il calendario gregoriano, più o meno rispettato o interrotto dai calendari repubblicani francesi o da quello fascista. I credenti nella dottrina di Maometto lo possono festeggiare in date sempre diverse, perché il loro computo del tempo segue l’anno lunare, che sposta il tempo indietro di quasi un mese ogni tre anni rispetto al calendario gregoriano. I sardi (insieme ai pugliesi e ai calabresi) lo festeggiavano il 1° settembre (mese che in sardo, idioma estremamente conservativo, si dice “caputanni“, “cabudanni” o “capidanne“, dal latino Caput anni), rispettando la tradizione bizantina, ma anche perché era l’inizio dell’annata agraria, quando venivano rinnovati i contratti relativi alla pastorizia e all’agricoltura. Gli ebrei non festeggiano il Capodanno perché troppo cristiano… sempre speciali.

Il “Felice anno nuovo” è anche un’occasione per cercare di esorcizzare la paura del domani, naturalmente. Per chi ce l’ha, sia la paura che il domani. Il domani, il futuro, è la più grande preoccupazione dell’uomo, perché unico animale sociale capace di organizzarsi con una programmazione a lungo termine e in maniera piuttosto complessa. Il babau, lo spettro del futuro incerto, difficile, che ha il suo antesignano nella turbolenta rinuncia all’età aurea del giardino edenico per un atto di superbia, il peccato originale che pesa sulle nostre teste già prima della nascita, DEVE essere esorcizzato, almeno per una notte, perché non si può sperare in un avvenire sempre difficile e irto di difficoltà. Ci s’immerge e ci si abbandona nei riti, pertanto, riti che hanno pure qualcosa di sacro, in qualche modo:

“Considera il gregge che pascola di fronte a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia domani, salta di qua e di là, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dalla mattina alla sera, giorno dopo giorno, poco legato al suo piacere e alla sua svogliatezza, cioè al paletto dell’istante, e perciò né malinconico né annoiato. È doloroso per l’uomo vedere questo, perché egli si pavoneggia della sua umanità di fronte all’animale e, nonostante ciò, osserva con invidia la sua felicità, perché questo solo egli desidera: vivere come l’animale né annoiato né soggetto al dolore, e lo desidera vanamente, perché non lo vuole come l’animale. L’uomo domandò una volta all’animale: “perché non parli con me della tua felicità e ti limiti a guardarmi?” Anche l’animale voleva rispondere e dire: “è che dimentico costantemente ciò che volevo dire”, ma dato che dimenticò anche questa risposta e tacque, l’uomo se ne meravigliò.” (F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della Storia per la vita).

Tutti quindi, chi più chi meno, utilizzano quel giorno per “rinnovarsi” insieme all’anno a venire. C’è chi brucia i “vecchioni” o le “vecchie” a Bologna e a Modena, nella notte di san Silvestro, quasi per distruggere col fuoco quanto d’infausto si era verificato durante quell’anno, e la tradizione del fantoccio in fiamme si ritrova pure in Ecuador e in Perù. Il fuoco è sempre presente nella maggior parte delle celebrazioni del cambio d’anno, elemento purificatore da sempre: a volte associato a creature demoniache e a riti che le celebrino; a volte, invece, all’opposto, corona luminosa intorno a figure sacre, o stato incandescente di roveti parlanti. Comunque, sacro o profano che sia l’uso che si fa del fuoco, esso è un elemento chiave ancora oggi per celebrare una festività a cui viene attribuito un significato così importante antropologicamente: i fuochi d’artificio, nella loro infinita varietà (stelle, bombe, pupatelle, piogge, eccetera), scandiscono la fatidica mezzanotte che segna il passaggio astronomico in quel fuso orario e le ore successive alla medesima, con rumore, fuoco, colori e, soprattutto, fumo. Originari della Cina, e inutili come moltissime cose che dalla Cina, soprattutto odierna, provengono, sono la quintessenza dell’effimero che va, appunto, in fumo, producendo la combustione un’enorme quantità di pericolosissimo inquinamento: frammenti di bario, di alluminio, antimonio, cloruri di rame, di stronzio, e di un sacco di altri elementi, diventano veleni respirati da tutti, bambini compresi portati da inconsapevoli (o criminali) genitori allo spettacolo pirotecnico collo scopo di farli divertire. Per di più i fuochi d’artificio sono costosissimi e, facendo parte della categoria degli esplosivi, sono assai pericolosi. Infatti, per parecchie persone, d’ogni età, ma di fasce sociali principalmente ignoranti anche se facoltose, l’anno nuovo comincia maluccio, con ustioni e spesso mutilazioni di dita, di braccia, e di altre parti del corpo colpite da esplosivi difettosi o usati male. Se tutti, privati e pubbliche amministrazioni, mettessero da parte i milioni investiti per i fuochi di fine d’anno o per la festa del santo patrono una buona parte del bilancio sarebbe salva. Uno degli aspetti grotteschi è che poi i sindaci di quegli stessi comuni che non sanno rinunciare allo spettacolo pirotecnico, fabbrica di smog pericolosissimo anche perché molto concentrato, sono quelli che decidono di bloccare il traffico, anche il giorno stesso dei fuochi, in caso di alta concentrazione di polveri sottili derivanti da traffico e riscaldamento (oltre che da attività industriali più o meno lecite). Schizofrenia allo stato puro ma non riconosciuta ufficialmente. Quindi, ufficialmente, inesistente. Ma così è, anche se non vi pare.

Il fuoco “distruggitore” che brucia il Vecchio invece è un rito pagano, molto meno appariscente della pirotecnia, ma assai sentito a Modena e a Bologna, dove si compie in Piazza Maggiore, davanti alla basilica di San Petronio. Un fantoccio malconcio, nelle sembianze di un Vecchio (di una Vecchia negli anni bisestili), che rappresenta l’anno appena trascorso, viene dato alle fiamme allo scoccare della mezzanotte, sperando che il fuoco si porti via tutte le cose orrende che sono successe nei dodici mesi passati. Naturalmente negli anni bisestili, che nella tradizione popolare sono associati a eventi funesti, si brucia la Vecchia, perché il genere femminile viene ritenuto più adeguato alle sventure. Retaggi della Genesi, si salvi chi può… Se il fumo del rogo va verso il Palazzo del Comune, che si affaccia sulla Piazza Maggiore, il presagio è funesto, perché significa che le sventure e i malanni restano in casa. Se il fumo si dirige verso le Due Torri, simbolo assoluto di Bologna, allora siamo salvi. Ma così è, anche se non vi pare. Naturalmente, dopo il falò, non contento dell’energia dissipata, il pubblico segue uno spettacolo di fuochi d’artificio sul posto.

In altre città, Napoli e altri luoghi del Sud Italia, ma da un po’ di tempo anche in luoghi del Nord dove l’emigrazione ha segnato un’integrazione di tradizioni, si buttano via dalle finestre tutte le cose che non servono più, incuranti di chiunque passi o se vi siano auto parcheggiate sulla pubblica via (Totò, in Risate di gioia, 1960, di Mario Monicelli, da due racconti di Moravia: “San Silvestro, roba vecchia, defenestro!”). Meglio se gli oggetti sono in vetro e in ceramica, perché così andranno in mille pezzi e simbolicamente andrà in frantumi anche la negatività associata a quegli oggetti di cui ci si vuole disfare. Peccato che i pezzi acuminati feriscano persone e danneggino oggetti, magari scampati alle fucilate e ai fuochi d’artificio, ma ciò è secondario in un’ottica rituale: il rito, la tradizione, va sempre rispettata perché è un elemento identitario. L’attaccamento a questa usanza pericolosissima è assai vivo a Napoli, città dove la superstizione e la scaramanzia sono ancora, purtroppo, un elemento culturale estremamente presente, anche se è vietato gettare oggetti dal finestrino.

C’è chi mangia le lenticchie, per Capodanno. Si fa un trasferimento figurato dei semi della gustosa leguminosa: ogni lenticchia corrisponde a una moneta, e quindi se se ne mangiano molte si avrà un annata ricca di soldi. Illusione infantile… diciamo che le lenticchie sono un ottimo piatto invernale e basta. Per gli ebrei, non meno cupi dei cattolici nei loro riti, le lenticchie sono invece associate al lutto, altro che prosperità, perché la forma circolare del seme rappresenta simbolicamente l’eterno ciclo della vita e della morte, traccia simbolica che si ritrova pure nella visione circolare del tempo dell’estremo oriente.

Il Nord Europa, inaspettatamente, ha un rito più mite e poetico associato all’inizio dell’anno nuovo: baciarsi sotto un ramo di vischio è considerato di buon auspicio. Pianta sacra ritenuta capace di scacciare pestilenze e disgrazie, il vischio: associato alla quercia, i druidi lo usavano per i loro riti. Norma, druidessa delle Gallie, augurandosi la pace tra Galli e Romani (Pace v’intimo… E il sacro vischio io mieto), falcia il vischio che viene immediatamente raccolto nei canestri di vimini dalle sacerdotesse. Ed inizia, subito dopo, “Casta diva“… ah, che atmosfera magica!

C’è chi è convinto che sia di buon augurio ingozzarsi con dodici chicchi d’uva allo scoccare dei dodici rintocchi della mezzanotte, uno per ogni chicco. Avviene soprattutto in Spagna ma si vede un po’ ovunque, anche perché poi le tradizioni, spesso quelle più stupide, viaggiano e vengono adottate anche da altri popoli.

Oggi si ritiene che indossare un capo di abbigliamento rosso per la notte di Capodanno sia augurale. Lo sfrenato e insulso consumismo dilagante e dominante ha decretato che l’indumento debba essere intimo. Un’intera umanità decide quindi di rifornirsi, pochi giorni prima dello scoccare della mezzanotte del 31 dicembre, di mutande, tanga, reggiseni, guêpière, calze, giarrettiere, brigidini e qualsiasi altra cosa di colore rosso, colore della carne, del sesso e della potenza. Mah… concedetemi la perplessità.

In Giappone preferiscono bere sakè nei templi mentre si ascoltano i 108 rintocchi di gong che scandiscono l’arrivo del nuovo anno e che rappresentano simbolicamente il numero di “peccati” (anche lì esiste il concetto di peccato?) che una persona può commettere nel corso di un anno. Ascoltarli bevendo sakè purifica dal peccato. Mah… paese che vai…

Per Capodanno, ad ogni modo, tutti si sentono autorizzati a dare consigli e a fare bilanci.

Il papa dice sempre che bisogna essere meno egoisti e più buoni e pensare a chi soffre e ha meno di altri. Banalità a raffica nel discorso papale da parte di un’istituzione che non ha il minimo rispetto per i poveri, quando un cardinale ruba nientemeno che le elemosine per soddisfare le sue brame di arredamento del suo superattico in Vaticano e dei francescani “investono” in immobili di lusso diverse decine di milioni di euro, provenienti da lasciti ed elemosine, per poi essere truffati dall’investitore stesso e perderli tutti. Meglio tacere e riprodurre antiche formule in latino in un solipsismo più dignitoso, rinunciando a mostrare la propria faccia in giro.

Il Presidente della Repubblica Italiana ammorba il popolo col suo discorso, altra fiera di banalità analoghe a quelle del papa, a reti unificate sulla televisione nazionale. E giù bordate sull’evasione fiscale, sui cattivi e su chi non fa bene il suo lavoro, e su chi ruba realmente il lavoro ai disoccupati, eccetera, eccetera, senza neanche lasciare delle norme generiche sul comportamento per l’anno nuovo. Talvolta c’è la deprecazione del terrorismo e l’auspicio della lotta allo stesso, omettendo di rivelare che sono i governi a organizzarlo come un orologio svizzero perché funzioni il più perfettamente possibile per “embobiner les touristes“. Cerca, il presidente, talora con toni pacati e in tutti i modi, di farci andar bene l’idea che l’Italia sia in ripresa economica mentre non è assolutamente così, anzi al contrario, con un debito pubblico che non fa che aumentare (grazie anche alla Chiesa che non paga un centesimo di imposte e che causa da sola la metà del debito pubblico italiano), e con i servizi che diminuiscono a vista d’occhio. Un welfare che ormai si avvicina sempre più a un badfare, segnando l’inabissamento della società che produrrà un disastro dopo l’altro a catena. Già i disastri sono iniziati, in verità, ma non possono che diffondersi a macchia d’olio. Mal comune mezzo gaudio, la situazione riguarda anche altri stati d’Europa, se Atene piange Sparta non ride. Ogni anno la stessa storia, segno che i suoi desideri sono disattesi volutamente e che forse il presidente, sia questo che i precedenti, compreso quello che sognava un’Italia diversa, dovrebbe stare più attento a dove apporre le firme, soprattutto sulle leggi provenienti da strani parlamenti zeppi di deputati non eletti da nessuno o eletti per distrazione. E tutte le reti televisive devono proporre i concerti di Capodanno nelle piazze di qui o di là, magari a temperature glaciali, sotto la pioggia o la neve, coi poveri strumentisti che non riescono a suonare per il gelo, perché non ci si rende conto che la musica la si deve fare al chiuso, in inverno. Ma siccome la festa popolare, dovendo accogliere nelle piazze la maggior parte di gente possibile, deve comprendere anche la musica dal vivo… E tutti i presentatori televisivi intentissimi a far sì che ci si debba per forza divertire, e si aspetta che la sfera luminosa (alcune volte in forma di mela, simbolo di New York) di Times Square arrivi a destinazione o che i rintocchi dell’orologio facciano il loro dovere. Anno nuovo, vita vecchia.

L’illusione di potersi rinnovare, di potersi permettere nuovi propositi, di potersi svecchiare e rigovernare interiormente è uguale ovunque, in una globale messa in scena per mascherare le responsabilità e per abbattere il livello di guardia in ognuno di noi, perché affidiamo un possibile cambiamento a una data che in sé non vuol dire niente. La parola d’ordine è festeggiare, condividere in un rito collettivo il divertimento obbligatorio, mangiare a più non posso come se fosse l’ultimo giorno dell’umanità, in un’orgia di cibi ipercalorici, spesso iperdannosi, e bere litri di spumante, di alcolici, per inebriarsi e dimenticare l’anno vecchio. Con conseguenti incidenti automobilistici provocati, nel ritorno verso casa, da gente svaporata che ha inzuppato quelle poche meningi funzionanti in un lago di alcool.

Certamente augurarsi un nuovo anno è immensamente più facile colla tecnologia di cui oggi tutti disponiamo. Il parossismo digitale invade pertanto le tavolate di persone che tutte si concentrano a smanettare sulle tastiere di smartphone quanto sono stati belli i fuochi e i cibi e le feste e i balli, invadendo l’etere con un enorme e inutile spreco di buoni propositi e di auguri ipocriti di qualcosa che non avverrà mai da solo. Oltre a invadere l’etere di prima con miliardi di orrende fotografie senza alcun senso. Due minuti dopo mogli e mariti continueranno probabilmente a farsi le corna, i ladri a svaligiare gli appartamenti rimasti vuoti per la notte di san Silvestro, i preti a incrementare il debito pubblico italiano grazie ai Patti Lateranensi, i trafficanti di armi venderanno i loro prodotti indisturbati, i politici a martirizzare i cittadini del proprio stato quando non a far la guerra a paesi che devono restare sottomessi, e così via.

Dando quindi per scontato che le cose non cambieranno, perché per farle cambiare ci vuole sempre un forte atto di volontà, ma rifiutandosi di assuefarsi al rimbecillimento totale, meglio augurarsi un “felice anno nuovo”, per ingannare sia il nostro vicino di casa, che ci guarderebbe con disprezzo se non lo facessimo (e, per non sentire la sonora e fastidiosa disapprovazione, siamo costretti a non provocarlo), sia coloro che stanno spiando la nostra posta (per le celebri ragioni della “sicurezza”) e potrebbero insospettirsi se non ce lo augurassimo, perché potrebbero accorgersi che abbiamo un cervello.

L’ipocrisia del “Felice anno nuovo” è l’unica cosa che realmente si rinnova pur restando uguale a sé stessa, paradosso della nostra incivile civiltà.

 

 

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