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La nostalgia scorre potente in noi: morte nera di una generazione
L’Italia non è un paese per giovani, ma di certo nessuno se la passa peggio della generazione dei quarantenni. Siamo i nati tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘80. Figli dei figli del boom, siamo cresciuti in un’epoca in cui i ceti medi erano medi sul serio e un operaio era convinto che l’istruzione universitaria avrebbe garantito ai figli un’esistenza lontana anni luce dalla catena di montaggio.
Non è stato così. La vecchia Italia di allora non ha resistito a tre decenni di immobilismo. Gettata alle ortiche l’ultima occasione utile per invertire l’inerzia (l’ingresso nell’Euro), s’è accartocciata su se stessa tra giustizialismi, populismi e cesarismi vari.
Ora, in un paese senza più politiche né industria (figurarsi le politiche industriali!), la laurea è un ascensore sociale stipato ma guasto e l’unico salvagente per le famiglie dei figli sono le pensioni dei loro padri. Nel frattempo sono passate in archivio riforme che non hanno mai toccato i privilegi acquisiti. Il debito pubblico e la crescita zero ne sono l’eredità più pesante. Le responsabilità pesano in egual misura su chi l’ha provocata e su chi non ha saputo cambiare. Ovviamente i primi danno la colpa ai secondi, e viceversa.
Anche Matteo Renzi, l’uomo sgradevole e sgradito che doveva scardinare i giochi sia a sinistra che a destra, non ha lasciato il segno che aveva promesso. Invece che aprire la strada alla sua generazione, ha scelto quella già battuta. E ha finito per perdersi lo stesso.
Intanto le disuguaglianze crescenti tra padri e figli sono un’autentica bomba sociale, ma restano ancora un paio di decenni prima che la situazione esploda. Perché preoccuparsene ora?
Rimane una domanda di fondo. Perché la generazione dei quarantenni non si ribella? Perché non l’ha già fatto? Perché non si rivolta contro chi prima le ha negato la possibilità di diventare protagonista e ora le rimprovera di non averlo mai fatto?
Se dovessi azzardare una risposta, partirei da un aspetto che può sembrare secondario ma che, in realtà, è il tarlo vero che ci corrode dal di dentro: la nostalgia.
Da anni, complici i social network, assistiamo inermi a una celebrazione dopo l’altra. L’ultima in ordine di tempo è la non stop dedicata a Bim Bum Bam, il programma mito di ogni quarantenne che si rispetti. La celebrazione è andata oltre il semplice amarcord. Un programma tutto sommato sciatto e privo di idee è diventato il simbolo di una generazione. In effetti escogitare siparietti comici tra un cartone animato e l’altro è una buona metafora dei quarantenni di oggi: ingannare il tempo in attesa che la storia riparta senza di loro.
Il 2016, poi, è stata l’annata dei coccodrilli. Molti sono convinti che quello appena concluso sia un anno particolarmente sfortunato perché ha visto la scomparsa di tantissimi artisti famosi. Non importa che si tratti di una percezione più che di un’asserzione suffragata dai numeri. La lista è lunga: Dario Fo, Anna Marchesini, Gianmaria Testa, Bud Spencer, David Bowie, Leonard Cohen, Prince, George Michael. E tanto basta.
L’ultima in ordine di tempo è stata Carrie Fischer, per la grande maggioranza di tutti noi la principessa Leia. La sua scomparsa è stata l’ennesima occasione per celebrare l’epica di Star Wars, ma soprattutto i bei tempi che furono. Pochi hanno ricordato la carriera della Fischer, attrice ma anche scrittrice di talento. Celebrarla a fianco di Luke Skywalker e Han Solo è consolatorio perché ci fa ripensare alla giovinezza. Anche di fronte alla morte, è sempre più semplice ricordarsi bambini invece che dimostrarsi adulti.
“Le merendine di quando ero bambino non torneranno mai più!”, urlava Michele Apicella. La nostalgia per l’infanzia, però, non impediva al protagonista di “Palombella Rossa” di rivendicare un futuro migliore. La critica era costruttiva perché non rinunciava all’idea di un mondo diverso.
I figli di Michele Apicella, invece, rivendicano un passato migliore, il migliore di tutti. Si divertono un mondo a ripensarlo non come era davvero ma come loro amano ricordarlo, ricoperto di strati di buoni sentimenti, zucchero e nostalgia.
Come può guardare al futuro una generazione di assuefatti alla nostalgia?
I quarantenni sono stranieri in terra straniera. Siamo una generazione di mezzo: per anni esclusi a forza dal sistema, abbiamo sprecato la nostra occasione di cambiare e oggi viviamo nella frustrazione. Idolatriamo il passato, perché è più comodo che sforzarsi di lasciare un’impronta reale sul futuro. I reboot, gli amarcord e le celebrazioni dei miti di allora, oltre che un affare colossale per l’industria dell’intrattenimento, sono la nostra morfina quotidiana. Basta non sentire dolore. Basta non doversi rialzare.
L’unica speranza sono i ragazzi. Forse ci salveranno loro, i nativi digitali, i millennials, chi non ha ereditato un mondo perfetto e non ha nessuna voglia, per ora, di richiuderlo in una teca e passare le giornate ad idolatrarlo. Tocca a loro scuotere noi quarantenni di oggi dalla nostalgia in cui ci siamo rinchiusi.
Avete presente Manuel Agnelli che per non farsi triturare ad X Factor si allea con Fedez senza capire quasi nulla di un genere di musica che ha sempre preferito non ascoltare? La strada potrebbe essere proprio quella.
Ascoltare, studiare, comprendere. Dovrebbero essere queste le parole d’ordine di una generazione che ha fallito ancora prima di invecchiare davvero e ora, senza l’insopportabile presunzione che gli ex sessantottini ebbero con noi, si mette a disposizione di chi oggi ha meno di vent’anni.
In cambio avremo l’opportunità di imparare linguaggi nuovi che non saranno mai davvero “nostri” ma che dovremmo avere la curiosità di scoprire. Senza presunzione e senza sentirci superiori. Senza dire che il grunge era meglio dell’EDM, che filmare in VHS era molto più romantico che diventare uno Youtuber, che giocare a pallone per strada faceva molto meglio che setacciare ogni strada a caccia di Pokemon.
Cari ragazzi, non fatevi scoraggiare dai peggiori di noi e, se potete, fate tesoro della nostra esperienza. Prendete esempio da chi non ce l’ha fatta e ha un’unica cosa da insegnarvi: l’importanza di avere fame, sì, ma soprattutto di non abbuffarsi soltanto di ricordi e nostalgia, ma di idee, aspettative e aspirazioni. A volte parliamo una lingua diversa ma, in fondo, siamo destinati a capirci. L’alternativa, sappiatelo, è non essere destinati a nient’altro.
C’è un vecchio mondo da assaltare. Noi non ci siamo riusciti, ma siamo dalla vostra parte. Dovete fissare l’obiettivo, essere voi stessi e partire. Noi, se volete, vi possiamo mostrare la mappa.
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