Costume

La Casta siamo noi (e finiamola con l’accusare sempre i politici)

19 Febbraio 2015

Avrete forse letto in queste ore della voracità di certi tizi di medio o notevole calibro che, invitati a premi letterari di una certa sostanza, ne ricaverebbero benefici di pari sostanza, tipo viaggi aerei planetari, soggiorni sette stelle, pagamenti tutti in nero e altre “miserabilia”, in realtà non nuovissime come cattive abitudini ma ancora in grado di destare nel cittadino un certo senso di smarrimento. L’interrogativo più immediato, che sale in superficie come gas di acqua frizzante, pone subito in rilievo quel dislivello grossolano tra posizione sociale e mancanza di stile, per cui sorprendersi ancora se un signore di chiara fama e di buona/buonissima condizione economica si riduce mestamente ad arraffare l’arraffabile. Questo, la gente comune, la gente perbene, non lo capirà mai. Ma nemmeno “loro” capiranno mai perché la gente comune continua a sorprendersi.

Cosa porta un uomo noto, che non avrebbe necessità di ulteriori privilegi se non quello d’esser riconosciuto come tale, a inabissare il proprio decoro sino a profondità insospettabili? Non le necessità impellenti, questo è evidente, e neppure l’occasione di cambiar vita, giacchè qui parliamo di circostanze in cui, al massimo, ci si può divertire per qualche giorno a spese dell’organizzazione (il tutto per qualche migliaio di euro). Dunque c’è dell’altro, se la cosa regolarmente accade. Quel senso di arraffo onnipotente è parte dell’esercizio del Potere. Parte di una riconoscibilità sociale che, per un perverso paradosso, esercita la sua forma pubblica non nel modo virtuoso che tutti immagineremmo per persone di quella fatta, ma esattamente nel suo contrario, in cui l’elemento erotizzante è un’oscena sfida al comune senso del pudore: mostrare tutta la propria indecenza con sguardo fiero e protervo e attendersi, come massimo godimento di ritorno, un sentimento di timore e rispetto. Quando si parla di impunità, dunque, dovremmo essere da queste parti.

In quale categoria inserire persone di questo tipo? Ci siamo abituati a puntare il dito contro la politica, un obiettivo facile, di pronta beva, esercizio che ci è venuto facile anche in virtù di una classe dirigente che ha fallito e che si è fatta maledire dall’universo mondo. Ma le miserie che leggiamo quotidianamente e che avvengono fuori dai Palazzi, fuori anche da Roma per intenderci, hanno strettissima parentela con quella Casta, ne sono appendice diretta, radice comune. Parola evocativa come nessun’altra, «Casta» racchiude miserie che vanno ben oltre la semplice classe politica per sconfinare nell’umanità corrente.

Dire che Casta siamo anche noi e non solo quelli di Roma sarebbe buona cosa, e se qualcuno vuole ribellarsi a questa indegna classificazione, padronissimo. Si prenderà le sue pene, gli toccherà una vita così virtuosa da sembrargli insopportabile, dovrà gestire il suo perenne moralismo con la santità del giusto, a cui non si potrà nemmeno rinfacciare di non avere chiesto la fattura all’idraulico. Dovrà gestire con cura la sua indignazione, distribuendola con l’equilibrio necessario perché nessuno possa valutarla come troppo interessata, esagerata o troppo flebile per non destare sospetto. Dovrà parcheggiare impeccabilmente per tutta la vita, per tutta una vita, e non pensare di mandarla in vacca neppure per un istante, come ha fatto per esempio, regalandoci finalmente un friccico di speranza, Alfonso Sabella, Assessore alla Legalità del Comune di Roma, il quale comprendendo perfettamente le pene di un semplice cittadino che deve fare una cinquantina di giri dell’intero quartiere prima di trovare uno strapuntino dove infilare la Panda, ha messo letteralmente a cazzo il suo Suvvone Bmw sopra il marciapiede davanti all’assessorato.
Da altre parti d’Europa ci sono gli sguardi.

Non serve molto altro per farti sentire qualcosa meno di un discreto cittadino, da altre parti non fanno scene madri, non urlano, non sdottoreggiano di moralità ma sempre quella degli altri, non devono minacciare di chiamare la forza pubblica perché la forza pubblica sono esattamente loro, le società civili che vivono su una convivenza acquisita nel tempo, in cui i meccanismi che regolano i rapporti tra umani sono piuttosto semplici e definiti sin dai primi anni di vita: questo si fa, questo non si fa, se fai questo ti tolgo la patente e non guidi più, se fai quest’altro butto la chiave. Eccetera, eccetera. Da altri parti ci sono anche le leggi, come da noi, ci mancherebbe. Ma vengono dopo, sono, come dire, un simpatico corollario a qualcosa di più definitivo come la decenza umana.

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