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La calunnia è un venticello… Il caso Bebe Vio

19 Ottobre 2016

La calunnia è un venticello…

Nelle ultime ore il web ha dato nuovamente il meglio di sè nella polemica scoppiata in merito alla partecipazione dell’atleta paralimpica Bebe Vio alla cena offerta da Obama alla Casa Bianca come ultimo evento della sua presidenza. Calunnie, attacchi sul costo del vestito della giovane schermidora, commenti volgari sulle sue protesi hanno mostrato il volto di un paese astioso, violento e privo di qualsiasi pudore.

L’Italia è diventata un paese di santi, poeti e calunniatori?

Forse lo è sempre stata, dice qualcuno, solo che ora la facilità di accesso alla “piazza virtuale” rende molto più semplice ottenere i propri 5 minuti di celebrità. E sul palcoscenico qualcuno da il peggio di sè. Le cattiverie e le maldicenze sono sempre esistite, la rete facilita di sicuro le squallide performance delle malelingue, ma forse non tutto si riduce a questo.
Quando un modello di sport e di vita positivo, giustamente selezionato per un evento di grande visibilità, anche per dare spazio a una storia che possa essere di sprone e motivazione per tante persone più o meno svantaggiate, viene attaccato in modo così violento significa che qualcosa, nella pancia e nella testa degli Italiani è cambiato. E in peggio. Significa che non sono solo le storie di “successo malato” dello sport dopato a destare l’odio del grande pubblico, ma il successo in sè, il miglioramento di una propria condizione personale o, molto semplicemente, un “evento felice”. La storia di una ragazza, colpita da una malattia devastante, che è stata in grado di reagire, seguire la sua vocazione e realizzare un sogno grande quanto un oro olimpico non genera ammirazione, desiderio di emulazione, rispetto, ma odio. Si odia perché lei ce l’ha fatta, perché partendo da una condizione svantaggiata è arrivata al successo e il successo, da sempre, genera invidia. Ma qui siamo oltre.

L’attacco violento alla persona è sintomo di un paese culturalmente in ginocchio, dove ognuno si sente in diritto di esprimere qualsiasi opinione e dove il pudore, quello stesso pudore che dovrebbe imporre di non colpire una persona facendo leva sulla sua disabilità ad esempio, è scomparso.

Che questo astio diffuso, da continuo sguardo sull’erba del vicino verdeggiante, sia in parte frutto della crisi è fuor di dubbio. Gli italiani stanno peggio e, quando si sta peggio senza aver modificato nulla nel proprio operato, si comincia a pensare che ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema/contesto sociale. A fronte di questa considerazione però la reazione può essere di due tipi: la presa in carico collettiva (e di comunità) di una condizione sbagliata da modificare – e quindi un’assunzione di responsabilità individuale e di gruppo rispetto alla crisi – nel tentativo di realizzazione di un miglioramento, oppure l’astioso tentativo di trascinamento “in basso” di chi sembra avercela fatta. Poco importa se con impegno e sacrificio. Questa filosofia del “se sto male io devono star male anche gli altri“, questa totale mancanza di empatia e questa incapacità di provare sentimenti positivi nei confronti di una “storia felice” sono mali che si stanno diffondendo trasversalmente nella popolazione. Un tempo limitati alla chiacchiera da bar, i commenti astiosi diventano materia di dibattito pubblico, l’invidia viene sdoganata e non si prova più vergogna per questo sentimento un tempo considerato, anche solo riferendoci alla cultura cattolica di cui il nostro paese è intriso, peccato capitale. Non è solo il mondo dello spettacolo il territorio di scontro: lo vediamo nell’assoluta mancanza di solidarietà di gruppo nel mondo del lavoro, nelle difficoltà che il modello meritocratico ha nel diventare guida delle relazioni professionali, nella totale mancanza di empatia (e quindi di solidarietà) dimostrata dalle reazioni scomposte di fronte alle politiche di accoglienza dei profughi. Stare male sembra implicare una completa dimenticanza del “restiamo umani” e allo stesso tempo l’esplicita rinuncia al sogno di un futuro migliore, che sia a lungo o a breve termine.

In questo senso la storia di chi ce l’ha fatta non diventa più simbolo di speranza e stimolo ad alzare lo sguardo, ma il dito nella piaga dell’insoddisfazione personale. Si abbassa lo sguardo, si urla il proprio astio pestando i piedi senza staccare gli occhi dal terreno.

Dimenticandosi che con questa filosofia di vita resteremo tutti per sempre inchiodati nella situazione in cui siamo. Impotenti e arrabbiati.

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