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La boxe può ancora regalare storie universali? Per chi combatte Anthony Joshua
Il 29 aprile è andato in scena a Wembley il match fra pesi massimi più significativo degli ultimi quindici anni. Un incontro lirico, pieno di sofferenza, che ha regalato al mondo un nuovo campione, Anthony Joshua.
Sul ring si affrontavano due uomini con storie molto diverse. Wladimir Klitschko, ucraino di 41 anni, si avviava alla pensione con un rimpianto: essere stato il campione del mondo meno amato nella storia dei pesi massimi; frigido, prevedibile, troppo bravo ragazzo. Joshua, 27 anni di madre nigeriana, portava sul ring il bisogno di dimostrare qualcosa: per molti era un finto campione, pompato sia fisicamente che mediaticamente, che ha fatto strada affrontando solo pugili di serie b.
Entrambi erano tenuti in piedi dal sentimento di rivalsa, il motore narrativo più potente, e alla fine, dando il sangue, entrambi l’hanno ottenuta.
La consacrazione per Klitschko ha assunto toni romantici: a fine match, ancora rintronato dal devastante uppercut che di fatto ha chiuso i giochi, prima ancora di scendere dal ring ha ammesso la sconfitta ma si è detto contento di aver reso qualcosa alla boxe, lo sport che gli ha dato tutto.
La questione per Joshua è un po’ diversa: a partire dal suo paese, il Regno Unito, sta raccogliendo nel mondo un consenso plebiscitario, quasi isterico, come non se ne vedeva dai tempi di Tyson. Ogni tanto la storia produce la figura del pugile cristologico, l’imbattibile golem, il campione nei cui pugni convergono le frustrazioni di molte generazioni di uomini infelici e sfruttati. Se Alì, con la sua arroganza, rappresentava la rivalsa dei neri verso i bianchi, e Tyson, con la sua arroganza, affermava la vendetta del singolo contro la società, l’arroganza di Joshua cosa rappresenta?
Joshua non è mai stato particolarmente affamato. Ha iniziato a boxare relativamente tardi non per soldi ma per divertimento. Manca, nella sua biografia, quella dimensione tragica e conflittuale che ci si aspetta da un eroe popolare. Difficilmente la Rai scriverebbe una fiction su di lui. Sembra quasi che la sua carriera sia avvenuta per caso, aiutata da una serie di colpi di fortuna, come la contestata medaglia d’oro alle Olimpiadi del 2012 vinta contro l’italiano Roberto Cammarelle. In fondo Joshua era solo un ragazzo con un fisico possente e una notevole attitudine sportiva a cui qualcuno ha consigliato di infilarsi i guantoni. Gli veniva bene e ha continuato, fino a diventare il simbolo di niente, l’eroe di nessuno. Ma è davvero così?
C’è quest’idea romantica per cui tanto onore debba derivare da altrettanti sacrifici, come se esistesse una giustizia che ogni tanto ci azzecca e premia l’uomo giusto, riequilibrando gli assi dei destini umani. Probabilmente parte della grandezza del suo match con Klitschko sta proprio nel dolore che il pugile ha dimostrato di saper provare, crollando a terra al sesto round davanti a 90mila persone ammutolite. Esibendo in maniera così brutale la sua sofferenza, ha dimostrato di essere un uomo come tutti gli altri e si è assicurato un poster nella cameretta di migliaia di bambini in tutto il mondo.
Ma a lui questo non interessa. Ha 27 anni, posta su Instagram le foto della sua colazione ricca di fibre e carboidrati, è cresciuto in un paese del primo mondo e potrei scommettere che a scuola non subiva bullismo. Si è emancipato dalla dimensione sociale della boxe, è il primo campione che non ricorda nemmeno alla lontana i pugili di Jack London, di Leonard Gardner, di Sepulveda. E nemmeno ricorda i campioni dell’Est Europa, tristi giganti osseti, azeri, siberiani cui il socialismo ha inibito l’espressione dei sentimenti, rendendoli delle dolenti vie di mezzo fra Carnera e Ivan Drago.
A Joshua interessa la performance, intesa come superamento dei propri limiti personali, in ottica squisitamente agonistica. È l’eroe del Crossfit, dei frullati detox, dei tanti white collar boxer che la sera si tolgono la cravatta e picchiano il sacco pensando alla presentazione in PowerPoint del giorno dopo. Anche loro, i borghesi anonimi delle metropoli, oggi hanno bisogno di un salvatore.
Sicuramente tanti immigrati e tanti sfruttati potranno vedere in lui un simbolo, e lui non li rinnegherà, perché Cristo è di tutti. La demistificazione del significato sociale del pugilato è un fenomeno difficile da valutare qualitativamente: forse gli stereotipi novecenteschi raccontavano una storia in cui oggi tanti non si riconoscono più. Joshua adesso è il campione, e un po’ del futuro della boxe è nelle sue mani. L’incognita è cosa verrà dopo. Forse prevarrà la dimensione ludica del combattimento, perché a volte è più eroico lottare per niente che per qualcosa. Ed è, questa, un’esperienza esistenziale sempre più diffusa e contemporanea.
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