Costume
Oui, je suis John Dewey
A chi scrive capita di controllare l’accoglienza dei propri libri, sia presso i lettori (quante copie vendute?) che presso gli addetti ai lavori. Ci si imbatte così in citazioni, riprese, qualche elogio e qualche critica. Se sensata, la critica fa anche più piacere dell’elogio, perché vuol dire che le cose scritte non sono banali e danno da pensare. Una cosa meno frequente, per fortuna, è che qualcuno ti critichi, anche aspramente, ma prendendoti per un altro. E che altro!
Tempo fa ho cominciato a lavorare ad un manuale on-line di pedagogia, che poi è confluito nel progetto di divulgazione delle scienze umane Discorso Comune. Avevo scritto, tra l’altro, un capitolo sul grande filosofo e pedagogista americano John Dewey, completandolo con una scelta di testi. Ora, nel volume Sulle orme di Athena (Libreria universitaria, Padova 2016) Aldo Rizza cita diversi passi di quella piccola antologia deweyana, ma per una svista particolarmente curiosa li attribuisce a me. E, cosa ancor più curiosa, li critica passo dopo passo, parola per parola. Nel bel mezzo di una citazione di Dewey, ad esempio, annota: “Certo neppure il pragmatismo americano si spinge a dire tanto; si tratta di una estremizzazione superficiale di qualcosa che è certamente presente nel positivismo e nel pragmatismo, ma con più fine e accorta visione” (p. 338, nota). Dunque: Antonio Vigilante riprende e sviluppa il pensiero di Dewey, ma lo fa estremizzando in modo superficiale, con una visione più rozza. Peccato che tutti i testi che Aldo Rizza ha letto non siano miei, ma di John Dewey. Il quale, dunque, si trova ad essere più superficiale di sé stesso.
La cosa, è chiaro, fa ridere. E al tempo stesso riflettere. Qualche tempo fa Antonio Menna si è divertito a ipotizzare cosa sarebbe successo se Steve Jobs fosse nato a Napoli. L’esito, inutile dirlo, sarebbe stato catastrofico. Ora, il sottoscritto non corre alcun rischio di scrivere libri importanti quanto quelli di John Dewey. Facciamo però questa ipotesi: che nasca, in Italia, un filosofo della levatura di John Dewey. Ipotizziamo che questo filosofo non abbia voglia, per ragioni pienamente comprensibili, di sottoporsi al calvario della carriera accademica. Che non voglia, o non possa, fare per anni il portaborse, affrontare la trafila del dottorato, delle borse, degli assegni di ricerca eccetera; che abbia, poniamo, l’urgenza di lavorare, in mancanza di una famiglia che lo mantenga in attesa che l’accademia si accorga della sua grandezza. E’ una ipotesi tutt’altro che peregrina: se facessi l’elenco di tutti i giovani in gamba che hanno rinunciato alla carriera accademica perché le condizioni economiche famigliari non consentivano loro la condizione di portaborse (o perché – e forse più spesso – disgustati dalle logiche di selezione dei più capaci ) questo articolo diventerebbe troppo lungo. Ipotizziamo ancora che questo John Dewey italiano abbia però voglia, come succede, di continuare a pensare, studiare, scrivere. Quante possibilità avrebbe, in Italia, di essere letto con serietà? Temo che la risposta sia a pagina 338 del libro di Rizza.
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