Costume

Irrequieti di Harper’s arrivate tardi. Noi abbiamo le scuse Ansa a Silvia Romano

12 Luglio 2020

E così, un centocinquanta irrequieti hanno deciso di mettere in piazza una certa insofferenza per l’aria che sta cominciando a mancare. C’è dentro un po’ di tutto in quel manifesto di Harper’s, giganti del pensiero e gente più viscidina alla Rowling. Per dire che, questa volta, non sono destra e sinistra a delimitare il campo. C’è gente, per esempio, come Ian Buruma che ci ha rimesso la ghirba da direttore della «New York Review of Books» quando ha pubblicato un saggio di Jian Gomeshi, un conduttore radiofonico canadese colpito e assolto dall’accusa di molestie sessuali da parte di una ventina di donne. E che oggi “senza nessuna esitazione” ripubblicherebbe il pezzo incriminato: «Ricordo a tutti – risponde così a Repubblica – che la persona in questione era stata assolta, un elemento fondamentale che pare non interessare a nessuno». Scrivono, i centocinquanta, che l’aria si è fatta irrespirabile perché il “politicamente corretto” si è mangiato tutto, ha cristallizzato il confronto, consegnandoci mani e piedi al pensiero unico moralista.

Uno dei casi più clamorosi, qualche settimana fa, ha coinvolto proprio il New York Times, avamposto che si sospettava liberale ma che non ha resistito a un poderoso assalto benpensante, un vero esercito della salvezza che ha chiesto e poi ottenuto la testa del direttore della sezione «Opinioni», James Bennet, “colpevole” di aver autorizzato la pubblicazione di un intervento di Tom Cotton, un senatore repubblicano che chiedeva con una certa decisione l’uso dell’esercito per sedare la rivolta di piazza dovuta all’omicidio di George Floyd. Inutile sottolineare come la testata Opinioni sia, in sé, l’approdo più naturale per un pensiero di diversa matrice, tanto che nell’idea liberale del NYT, il direttore di quella sezione risponde direttamente all’editore e non già del direttore del giornale, proprio per evitarne possibili ingerenze. Ma niente, moltissimi giornalisti del quotidiano, forti anche di una rivolta social, hanno considerato inaccettabile quella “provocazione”, e proprio in quelle ore drammatiche del caso Floyd. Così, alla fine hanno avuto la testa che chiedevano. Qui sì che la sinistra ha giocato un ruolo. (Naturalmente il NYT si vende la versione del “mancato controllo” da parte di Bennet, ma in concreto cambia poco).

Ci si chiede come e se tutto questo abbia una ricaduta anche da noi, nel paesello. Ma intanto, il paesello Italia non è mai definitivo, i toni restano sempre sfumati, siamo pienamente immersi in quell’appiccicosa melassa del politicamente corretto che rende tutto sempre rivedibile, ne siamo circondati, su qualunque argomento il nostro pensiero, che magari partirebbe ardimentoso, via via perde per strada piccoli pezzi di coraggio, sino a consegnarsi alla più blanda e comoda delle interpretazioni mainstream e farsi macchietta.
Eppure anche noi abbiamo avuto un caso clamoroso, recente, di inimmaginabile potenza. Il caso di Silvia Romano. Un caso che negli States, ma del resto in qualunque paese, avrebbe spaccato e che noi invece abbiamo compresso nella solita minestrina moralista da convalescenti della democrazia. Fatto sta che, partita un bel giorno per il Kenya come volontaria, e senza neppure credere in Dio come poi ha rivelato, come per incanto Silvia ci è tornata Aisha, ragazza musulmana che aveva visto finalmente la luce dopo 18 lunghi e dolorosi mesi di prigionia nelle mani dei terroristi.

In quel preciso momento, nel momento in cui Silvia disvelava al mondo la sua nuova identità, compressa nella sua nuova “estetica”, è iniziata la prima forma di censura preventiva. La pretesa cioè che di quel fatto, di quel cambiamento così clamoroso, non se ne dovesse parlare, che nessuno avesse il diritto a parlarne, perché, al fondo, era una sua scelta personale, un percorso interiore che arrivava a compimento a cui nessuno poteva aggiungere nulla, pena la colpa di volersi introdurre con violenza nella sua scelta più privata. Avremmo dovuto, dunque, aspettare i suoi tempi, e prendere per buona e cristallina una conversione sulla via dell’Islam, chissà se e quanto moderato visto che avveniva a ridosso di una detenzione terrorista. Custodi di questo silenzio, ovviamente, gli angeli della sinistra che, incuranti del ridicolo ma preoccupati delle possibili speculazioni della destra più becera, premevano perché Silvia, nel frattempo diventata Aisha, sparisse completamente dai radar sino a nuovo ordine, sino a quando cioè lei stessa ci avrebbe graziato di qualche parola chiarificatrice (che è arrivata dopo mesi, in effetti molto chiarificatrice).
Se già tutto questo non fosse sufficiente a definire il “politicamente corretto” nelle sue forme anche più ridicole, pur nei suoi contorni drammatici, a consegnarci mani e piedi al più malinconico dei conformismi siamo stati proprio noi, noi giornalisti. Quando Silvia è tornata nella sua casa di

Milano, com’era prevedibile intorno ai suoi possibili movimenti si è creato quello che da sempre definiamo “il circo dell’informazione”, quel gruppo di fotoreporter e di cronisti di agenzia che aspettano le mosse della protagonista, uno sguardo dalla finestra, un saluto alle persone che reclamano dalla strada, l’uscita dei suoi genitori. Fino al giorno in cui, quello sì di interesse più generale, Silvia diventata Aisha sarebbe uscita per la sua prima passeggiata, finalmente riposata, finalmente e di nuovo cittadina della sua Milano. Quel giorno, quando arrivò, venne ovviamente considerato meritevole dalle agenzie di stampa di essere seguito e raccontato. Un meccanismo talmente elementare da non doversi neppure spiegare. Seppur di legno in certi casi, anche quelli/e di sinistra ci possono arrivare.

Per la sua prima uscita, che cadeva dopo il lungo lockdown, Aisha aveva scelto di andare con sua madre dall’estetista. Una scelta abbastanza conseguente, giacché ricomprendeva la quasi generalità delle ragazze, delle donne, delle signore, che in qualche misura desideravano riprendere confidenza con una certa cura di sé. La normalità della cura di sé che però, nel suo caso, in qualche misura assumeva una sua forma anche più profonda, dovendosi rapportare a una nuova estetica, che necessariamente prendeva le distanze dalla considerazione per il corpo più cara all’occidente, come lei stessa non ha mancato polemicamente di sottolineare nella sua prima intervista.

Un servizio dunque giornalisticamente doveroso, pienamente corretto, da rivendicare senza incertezze in qualunque contesto. Un servizio che l’agenzia Ansa ha svolto con la solita cura. Ma le sentinelle del sepolcro moralista non hanno lasciato cadere la ghiotta occasione e così dai social si è abbattuta la solita pioggia acida. Giù le mani, lasciatela tranquilla, che vergogna indugiare nella sua vita privata, basta con questa attenzione morbosa. Fin qui in fondo, nulla di nuovo, se fosse finita così. Ma a definire lo scandalo del “politicamente corretto” ci ha pensato proprio l’Ansa che, evidentemente preoccupata per il tono delle polemiche, ha prodotto successivamente una nota nella quale chiedeva scusa per aver trattato quella giornata di Aisha in maniera non consona, sostanzialmente non rispettosa della privatezza e dei sentimenti altrui.

Queste scuse dell’Ansa, per avere fatto sostanzialmente il proprio lavoro e il proprio dovere, sono il giorno zero del nuovo mondo politicamente corretto. Sono l’immagine plastica di un cedimento strutturale alla furia che corre sui social, che si abbatte senza pietà sui nostri esigui, delicati, sempre più fragili istinti liberal che vorremmo tanto mantenere in vita, ma che neppure un mestiere scafato e cinico come il giornalismo riesce più a difendere. La battaglia è persa, dunque. E il premio “Politicamente corretto” 2020 va naturalmente all’Ansa dell’amico Luigi Contu.

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