Calcio
Interismo: malattia del tifo o tifosi malati?
L’interismo è una condizione ontologica che induce al pessimismo, e questo é appurato. Ed è anche uno stato del mondo che porta il malcapitato di turno, afflitto da questa inspiegabile malattia, a votarsi ai santi, per chi ci crede, o a cercare nella scienza qualche risposta ai propri dubbi ancestrali.
Abbiamo già avuto modo di ribadire, in questo stesso spazio, la nostra (plurale maiestatis perché mi do una pacca sulla spalla da solo) perplessità manifesta nei confronti della popolazione nerazzurra. Non è un’accusa ad personam. L’interista è come una goccia nel mare: magari percepibile nella sua esistenza singola ma, una volta insieme alle altre, condannata a confondersi nel pelago delle frustrazioni vane. La user experience di San Siro è, volenti o nolenti, un po’ questa: migliaia di omini annoiati, spesso cittadini comuni e di buon senso, che osservano impotenti una scalmana di brutte persone (perché questo sono gli ultras, detto in modo semplice) mentre cantano cori inaccettabili e razzisti e tengono lo stadio in scacco. E c’è del resto parecchio da ridire pure sui presentabilissimi tifosi comuni (me incluso eh) che, un po’ come i trolls dei commenti di Facebook, comodi appunto nell’anonimato della loro esistenza di goccia, scaricano una rabbia aggressiva verso i giocatori nerazzurri: valgano i nomi di Muntari e Ranocchia, su tutti, a testimoniare il caso di due atleti che, per il solo fatto di esistere, determinavano o determinano una cataratta di insulti o fischi anche solo al momento dell’annuncio della formazione.
Domenica scorsa, l’apoteosi con la vicenda Icardi: lasciamo perdere che il giocatore abbia pubblicato una biografia inutile a soli 23 anni e che abbia, in essa, scritto un paiolo di cazzate. Sorvoliamo pure sul merito dell’episodio incriminato o sull’assoluta assenza della società nel disciplinare l’immagine del giocatore simbolo dell’Inter, tanto più dopo l’investimento oneroso del rinnovo faraonico di contratto.
Il punto qui è l’intimidazione mafiosa di una curva che impone alla società (sic) di intervenire per punire il colpevole. E il punto è anche l’assoluta rilevanza, mediatica pure, data a personaggi della tifoseria davvero loschi, responsabili (insieme ad altri) persino di un’aggressione violenta sotto la casa del giocatore.
L’Inter, nella persona di Javier Zanetti e di altri dirigenti, ha sostanzialmente deciso di dare un colpo al cerchietto e uno alla botte, avallando le proteste degli ultras e multando Icardi, senza comunque togliergli la fascia di capitano. Quel che è peggio, però, è l’idea concreta di essere alla mercé di un manipolo di tifosi, gli stessi che, quando non fanno le penne con gli scooters, provvedono a portarli all’interno di San Siro per gettarli dagli spalti.
La domanda, allora, è una: ma servono davvero i tifosi a una squadra di calcio in un contesto del genere?
Poiché noi non ci votiamo ai santi, come detto nell’introduzione, ma cerchiamo conforto nella scienza, ci sono diversi lavori che insistono sulla psicologia del tifoso e danno qualche risposta.
Uno, pubblicato nel 2011 sul North American Journal of Psychology, riporta i risultati di uno studio di laboratorio fatto per diversi sport. Alcuni atleti sono stati chiamati ad esibirsi di fronte a un pubblico che, di volta in volta, stava zitto, esultava o insultava il performer. Si è cercato di capire l’effetto sui tiri liberi a basket, sul baseball o sul golf, con un risultato abbastanza chiaro: tranne che nel caso del basket (dove comunque si valutava non un’azione ma un gesto in cui il giocatore, tipicamente, cerca la massima concentrazione), urlare contro gli atleti impatta negativamente sulla performance, per motivi che vanno dall’interrompere il flusso agonistico dello sportivo all’umiliarlo riducendone l’autostima.
Ma andiamo, a questo punto, a considerare l’impatto economico dei tifosi: forse, direte voi, vale la pena assecondarli perché aiutano una squadra ad aumentare i suoi introiti. È proprio così?
Uno studio di Szymanski, il papà della Soccernomics, si è concentrato sul caso inglese degli hooligans, utile perché consente di separare due periodi caratterizzati da regole diverse rispetto alla gestione dei tifosi negli stadi, in modo che sia possibile ottenere evidenze empiriche più robuste. Analizzando entrambi i periodi (dal 1984 al 1995 e dal 2001 al 2010), Szymanski ha mostrato come, nel primo, in pieno regime di hooliganism, l’effetto degli arresti di tifosi violenti sul fatturato di una squadra sia stato molto consistente, riducendolo considerevolmente, mentre negli ultimi 10 anni, per effetto della gentrification e della nuova gestione tipica degli stadi inglesi, esso sia andato a sparire.
Non è dunque strategico intervenire politicamente/economicamente su un tema tanto spinoso?
La questione si fa ancora più piccante, poi, se ci si sposta sull’analisi dell’aggressitivà dei tifosi di calcio. Uno studio pubblicato sulla prestigiosa PLoS One riporta i risultati di un’indagine di laboratorio condotta in Olanda su un’ottantina di supporters sfegatati dell’Ajax.
Il test è stato congegnato in modo che ciascuno dei soggetti vedesse gli highlights di una partita giocata dall’Ajax un anno prima e persa malamente con la squadra rivale del Feyenoord. Ognuno dei partecipanti all’esperimento, oltre alla sintesi della partita, veniva sottoposto a stimoli mediatici diversi: chi vedeva l’intervista di un tifoso del Feyenoord che parlava con rispetto dell’Ajax; chi, invece, ascoltava le parole di un avversario che denigrava i lancieri e chi, infine, veniva sottoposto a uno stimolo neutro.
I risultati mostrano come l’aggressività dei tifosi dopo aver visto il match aumenti in modo molto significativo soprattutto nel secondo caso.
E come viene misurata l’aggressività? Oltre alla rilevazione della produzione ormonale, i ricercatori hanno disegnato un setting molto intelligente, mettendo a disposizione dei soggetti della salsa di Tabasco con cui ognuno di loro poteva condire un piatto da dare a un tifoso avversario. La quantità di peperoncino messa sulla pizza del nemico, se vogliamo stare nella metafora, aumenta esponenzialmente rispetto ai soggetti del gruppo di controllo non soggetti ad alcuno stimolo.
Lo studio mostra come l’aggressività dei tifosi aumenti in funzione di quanto la sconfitta viene considerata ingiusta e imputata a fattori esterni (le decisioni arbitrali, ad esempio). Come a dire che il clima di intolleranza, sospetto e percezione del complotto non agevola certo la fiducia e serenità del sistema calcio.
Calciopoli do you remember? Rigore per la Juve do you remember?
La possibilità di vivere più gioiosamente quello che è uno sport e un gioco passa, assolutamente, dalla capacità / dovere di intervenire sul tifo organizzato, per limitarne gli abusi e lo strapotere, e pure dal fatto che i cosiddetti tifosi civili si sentano corresponsabili di un ambiente teso e potenzialmente esplosivo. La situazione è da tempo grave senza essere notoriamente seria e poi, tanto più che, come diceva il caro vecchio Winston Churchill: “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”.
Nell’andare allo stadio, non sarebbe male rimettere in ordine le priorità.
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