Costume
il virus, il liberismo, la Costituzione
Per chi vive come me nella trincea di Bergamo, dove il bollettino dei caduti arriva ogni mattina con le chat di Whatsapp, la strategia di Boris Johnson per affrontare l’epidemia del nuovo coronavirus appare tragicamente surreale.
Eppure, il ragionamento del premier inglese ha il lucido cinismo di quello di un attuario: calcolando costi e probabilità di morte, sembra possibile minimizzare entrambi isolando i soggetti più vulnerabili e lasciando che il virus faccia una veloce scorribanda attraverso il resto della popolazione, per “vaccinarla” senza interrompere la furiosa corsa della macchina dell’economia. E’ la logica del liberismo nella sua essenza più pura: lo Stato deve sempre e comunque limitare al massimo i suoi interventi per non intralciare commerci, produzioni e scambi finanziari e persino perdere i propri cari è considerato un prezzo, tutto sommato, accettabile.
Questa logica ha così impregnato la nostra cultura che l’abbiamo vista affacciarsi anche da noi, seppure in termini meno drastici, da parte di esponenti di tutto lo spettro politico: a partire dall’appello a “riaprire, tornare a lavorare” del Segretario della Lega fino all’inno compulsivo del #Milanononsiferma, orchestrato dal sindaco di Milano. Nel momento critico dell’espansione dell’epidemia – quello in cui i casi erano ancora pochi e si sarebbe potuto bloccarla con un rigoroso lockdown – sono state tante le voci che hanno provato a minimizzare e a convincere i cittadini che, al contrario, si poteva e doveva evitare di fermarsi. A Bergamo ciò è purtroppo avvenuto nel modo più grave: gli scrupoli per i possibili danni all’economia locale hanno determinato la mancata istituzione di una zona rossa in val Seriana (divenuta fin dal 23 febbraio focolaio di contagio, a causa di un’infezione partita dal piccolo ospedale di Alzano Lombardo); ciò ha fatto sì che il virus dilagasse verso la città, dove il sindaco, preoccupato per le sorti del comparto turistico e commerciale, ancora dieci giorni fa invitava gli anziani a restare a casa, ma tutti gli altri a uscire, fare shopping e andare al ristorante. I risultati sono purtroppo noti: mentre nel lodigiano (dove, dopo l’infezione dell’ospedale di Codogno, la zona rossa è stata subito istituita) i nuovi casi sono ormai quasi scomparsi, a Bergamo la tragedia continua, con il suo straziante calvario di morti improvvise e solitarie, di bare che si accumulano e di forni crematori che non si spengono neppure di notte.
Proprio l’esperienza comparata della bergamasca e del lodigiano fa capire quanto illusoria sia la strategia di Boris Johnson – e anche quanto infondate saranno le accuse di chi, a emergenza terminata, non mancherà di additare il governo per “aver esagerato“, causando danni irreversibili all’economia. Non vi è infatti un’alternativa praticabile tra salvare delle vite e fermare l’economia per uno o due mesi: se non si mette in atto subito il lockdown, la violenza del contagio è tale non solo da fare moltissime vittime (peraltro non tutte “vulnerabili”), ma da costringere in casa, malati o in quarantena, un grandissimo numero di lavoratori per un tempo così prolungato da mettere comunque in crisi il sistema economico – per non parlare dell’effetto paralizzante dell’angoscia, che si diffonde quando per giorni e giorni si sentono ululare ininterrottamente le sirene delle ambulanze. Il blocco può coinvolgere solo un’area ristretta, se si ha la saggezza di intervenire subito per circoscrivere i primi focolai e impedire che l’incendio divampi; se invece ci si muove troppo tardi, non resta che la dolorosa misura di fermare quasi completamente il Paese.
Non è certo questo il momento di attribuire responsabilità, che sono sicuramente condivise tra molti soggetti ed è del resto ben comprensibile l’incertezza che assale chiunque abbia il compito di prendere decisioni drastiche in un frangente emergenziale; ma quanto è accaduto fin qui può servire da lezione a chi si sta accingendo ora ad affrontare la stessa minaccia. Il virus non si è infatti insediato ovunque nello stesso momento, ma si sta propagando come un’onda di tsunami: è bene che gli amministratori che la vedono arrivare siano consapevoli della strada migliore da intraprendere. Questa è stata ben spiegata dagli epidemiologi: occorre ridurre al massimo i contatti fisici tra i cittadini e le possibilità di contagio indiretto. Ma, quando queste prescrizioni entrano in conflitto con esigenze diverse, c’è una bussola che può guidarci nelle scelte: è la nostra Costituzione.
All’articolo 32 essa stabilisce che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività; d’altronde, per l’articolo 41 l’iniziativa economica privata è libera (…) non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Questi due articoli fanno immediatamente comprendere da quale parte debba pendere la bilancia tra l’interesse economico e quello sanitario e rendono la decisione ovvia, non appena i rischi per la salute sono divenuti evidenti.
I principi della nostra Carta costituzionale ci indicano così quali siano le vie praticabili per affrontare l’epidemia e quali invece, seppure efficaci, vadano scartate o usate con le opportune cautele: ad esempio, l’articolo 15 (la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili) rende impensabile la sorveglianza di massa degli infetti che è stata utilizzata in Corea del Sud, mentre l’articolo 16 (ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza) ha impedito di intervenire tempestivamente per scongiurare la sciagurata fuga verso il Sud Italia degli emigrati che si trovavano in Lombardia subito prima dell’entrata in vigore della zona arancione.
Proprio questo episodio ci fa riflettere sul fatto che alle libertà garantite dalla nostra Costituzione deve corrispondere un’assunzione di responsabilità da parte di tutti noi cittadini. Così come il governo non ha potuto impedire il “ritorno a casa” di cittadini potenzialmente infetti, non ha potuto nemmeno bloccare la fuga di notizie che lo ha causato: infatti, per l’articolo 21 la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure e per questa ragione i media hanno potuto divulgare la bozza del decreto istitutivo della zona arancione prima che esso venisse emanato. In un caso come questo, uno Stato democratico non può che affidarsi al buonsenso dei giornalisti e a quello, ancora più importante, dei cittadini, i quali devono essere consapevoli che saranno chiamati a rendere conto delle conseguenze delle loro azioni.
Così, mentre l’ennesima sirena di un’ambulanza segnala il passaggio di un malato in cerca di salvezza, mi trovo a riflettere sulla immensa fortuna di vivere in una Repubblica che riconosce a tutti i suoi cittadini il diritto alla salute, comprese le cure gratuite agli indigenti. A questo grande dono dobbiamo saper rispondere con la gratitudine verso tutti coloro che si stanno sacrificando (anche a costo della vita) per garantircelo e con la capacità di fare la nostra parte, piccola o grande che sia, per collaborare affinché tutti possano goderne, oggi e tutte le volte che ce ne sarà bisogno.
(Immagine di Tiziano Bianchi. Ringrazio Francesca di Fresco per la possibilità di utilizzarla)
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