Ambiente
Il terremoto del Centro Italia, la storia che non c’è
La settimana scorsa sono andato a quel paese. Quel paese è Amatrice, la città simbolo del grande buco nero che è l’Italia Centrale dalla notte del 24 agosto del 2016, quando un terremoto buttò giù tutto e causò trecento morti. Amatrice dista una quarantina di minuti di macchina dal posto in cui abito.
Ero andato a raccogliere una storia che si è rivelata non essere un granché: una lite condominiale, in sostanza. Certo, la questione sarebbe più complessa – capirete, si parla di una lite condominiale fantasma: il palazzo che non esiste più e si sta discutendo sulla sua futura ricostruzione –, ma la verità è che sono tornato a casa con un pugno di mosche, senza cioè la storia che cercavo. Sono alla ricerca di qualcosa di decente da scrivere da qui a tre settimane, quando i riflettori torneranno ad accendersi su questi luoghi e per noi cronisti di provincia – di questa provincia – ci sarà un po’ da lavorare. Certo, scriverò il classico pezzo di cronaca sulle visite istituzionali del giorno dell’anniversario. Probabilmente farò anche qualcosa sulla situazione generale a tre anni dal disastro.
E qui, a pensarci un attimo, sorge un bel problema: cosa scrivere? Potrei prendere il pezzo dell’anno scorso, cambiare pochissimo e funzionerebbe comunque.
È così che continuo ad andare alla ricerca di storie che mi offrano un punto di vista diverso dal solito. Non le sto trovando, però. Anzi, più cerco e più mi ritrovo davanti alle stesse facce, alle stesse situazioni, alle stesse lamentele. Tutte cose che già so e che ho già raccontato più o meno in tutte le salse, solo un anno più vecchie.
È colpa mia? Mi sono dimenticato come si fa il mio mestiere? Non l’ho mai imparato davvero? O forse no: non ci sono storie nuove da raccontare. Non ci sono mai state vere storie, forse. Anzi, in tre anni non siamo nemmeno riusciti a metterci d’accordo per trovargli un nome vero a questo terremoto. Si chiama «del Centro Italia», e l’indicazione è chiaramente troppo vaga. Non vuol dire niente.
La lite condominiale fantasma, messa così, potrebbe essere interessante. Uno spunto: comunità che crollano come prima di loro hanno fatto le case, rapporti di vicinato che si degradano quando il vicinato non c’è più, resistere alla tentazione di mollare tutto. I giovani non lo fanno, i vecchi devono farlo per forza. Tutto vero, penso, però sono temi che ho già affrontato. Santo cielo, sono tre anni che scrivo e riscrivo la stessa storia. La notizia è che non c’è notizia. Si fa presto a sentirsi come Mahershala Ali nella terza stagione di True Detective: troppo vicino, troppo lontano, troppo veloce, troppo lento, in sostanza incapace di risolvere il mistero e infine destinato ad aggirarsi per sempre nella giungla del Vietnam, circondato da ombre e nemici invisibili.
Leonardo Animali è un personaggio che compare spesso nei miei racconti sul terremoto. È un omone grande e grosso con la faccia da elfo che vive a Genga, un paese in provincia di Ancona, alle porte del cratere del sisma. È lui ad aver creato il concetto di «strategia dell’abbandono», un nome evocativo per indicare quell’insieme di pratiche politiche e sociali volte allo svuotamento dell’Appennino. L’acceleratore di un processo già in atto da prima del 24 agosto 2016: la crisi delle aree interne, la morte dei paesi di montagna. Strategia dell’abbandono è non ricostruire, mettere su casette provvisorie in tempi biblici e che dopo pochi mesi già si infiltrano d’acqua e cedono sotto la muffa. Strategia dell’abbandono è costruire decine di centri commerciali prima ancora di pensare alle case (quelle vere, non quelle di plastica e ferro). Strategia dell’abbandono è lasciare che le cose accadano: la gente si arrabbia, si sente lasciata sola, percepisce di star subendo una grave ingiustizia. Poi piano piano si stanca, si spegne, rinuncia. Strategia dell’abbandono è non lasciare storie da raccontare. Un esempio per tutti: sono settimane che telefono a destra e a manca per sapere di preciso quanti siano ancora gli sfollati. Non lo sa nessuno. I dati ufficiali non esistono più. Non ce li ha il governo, non ce li ha la protezione civile, non ce li ha il commissariato alla ricostruzione. I Comuni sanno vagamente qualcosa, ma sempre con una buona dose di approssimazione. Ci sono delle stime, quindi possiamo dire che, più o meno, sono tra i trentamila e i cinquantamila. Relativamente tanti, relativamente pochi. Comunque il numero esatto non si sa.
La settimana scorsa, quando sono andato a quel paese a raccogliere la storia della lite condominiale fantasma, la mia fonte l’ho incontrata nella sua casetta provvisoria, in una delle frazioni di Amatrice. Un salottino, una stanza da letto e un bagno. Un cane (molto grande) e un gatto (molto piccolo). Strisce di carta moschicida che pendono dai lampadari. Decine di insetti attaccati. Fuori ci sono altre tredici strutture uguali. Pareti gialline, aspetto pulito ma triste come un villaggio vacanza nel mezzo del nulla. Ecco, di queste quattordici casette cosiddette provvisorie, quelle abitate sono appena due. Delle altre non sono mai state consegnate le chiavi. Quindi le persone non solo non vivono nelle case che fino a tre anni fa erano ancora in piedi, non vivono nemmeno nelle strutture messe in piedi per ospitarle dopo il sisma. Anche questa, però, è una cosa che già sapevo e che già avevo scritto. Eppure ogni volta che metto piede in uno dei villaggi di casette resto interdetto. Mi sembra quasi di vivere in un romanzo di fantascienza. Non quella con le astronavi e le guerre stellari, ma quella post-apocalittica, cupa, polverosa, straniante, fatta di oggetti nuovi in scenari vecchi. Il futuro che entra nel presente e non riesce però a integrarsi.
«Com’è stare qui dentro?», lo chiedo sempre agli abitanti delle casette. È una domanda banale, lo so, ma le risposte sono sempre diverse. E, per un cronista può essere una cosa strana, mi piace pensare che le risposte siano più importanti delle domande.
«Com’è…», la mia fonte lascia sospeso un attimo il discorso. Poi riprende, quasi con una certa vitalità. «Dicono che in Cina e in Giappone vivono già così. Ma non la povera gente come noi, quelli che hanno i soldi…».
Il futuro, appunto. Abbastanza lontano, anche geograficamente, in questo caso. Vivere in scatola. Perché gli spazi mancano. Cioè, qui in realtà non mancherebbero. Ma insomma, ci siamo capiti.
Che fare, dunque? Quale storia raccontare? La tirata sui tre governi e i tre commissari che si sono succeduti senza che qui qualcuno riuscisse a vederne la differenza la faccio un giorno sì e uno no su Facebook. Il fatto che i terremotati siano usati solo come strumento di propaganda, pure, è una cosa che ripeto ad ogni occasione utile. La tendenza a fare di questo territorio un parco divertimenti con concerti e villaggi commerciali senza possibilità reali di vita e di residenza è un mio cavallo di battaglia, praticamente: lo scrivo e lo riscrivo in continuazione.
Le persone. Restano le persone da raccontare. Ma anche le loro storie le ho raccolte già. Non tutte, certo, mica sono Superman. Però cominciano ad essere tutte uguali, queste storie. Perché tutti uguali, appunto, sono i problemi. Siamo tutti solo un po’ più stanchi. È la strategia dell’abbandono che si abbatte anche su di me, che non trovo più le parole per raccontare questa storia.
La nostra storia che si fa inghiottire dal presente.
[Foto di Michele Massetani]
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