Costume
Il (sano) egoismo, che salva le relazioni
Che cosa significa relazionarci con un’altra persona e perché, in molti casi, ci troviamo ad affrontare delusioni sul campo? Cosa rende così complicati i rapporti al punto che, in alcuni casi, dalla delusione si finisce col pensare che non avevamo capito nulla della persona che avevamo di fronte? Qualcuno parla di una crisi dei rapporti data da una crescita smisurata di individualismo ed egoismo che ci porterebbe ad assolutizzare i nostri desideri e il nostro sistema valoriale, il nostro stile di vita. Forse però, nonostante il crescente numero di “Io” pronunciati con la solenne fermezza di chi si sente al centro di un piccolo universo, le cose non stanno esattamente così.
Anche perché, per parlare di egoismo e indivisualismo, occorre che gli individui egoisti sappiano cosa sono e cosa vogliono. E questo non è affatto scontato.
Per relazionarci con qualcuno dobbiamo prima sapere da che punto partiamo
Sembra una cosa ovvia, ma proprio da questa mancata premessa derivano molti dei disequilibri relazionali. Che si tratti di un’amicizia, di un rapporto amoroso, di un legame con un familiare, la relazione implica sempre un movimento biunivoco: da me a te e da te a me. Nelle relazioni mettiamo in gioco le nostre competenze emotive, sociali, il patrimonio culturale e valoriale che abbiamo acquisito nel tempo, i nostri gusti, i nostri limiti. Ci mettiamo in gioco. Partire dalla conoscenza del “campo base” quindi non è – nel viaggio dei rapporti – un dato accessorio. Le nostre relazioni si sviluppano infatti da una “curiosità” iniziale e questa curiosità si struttura per analogia (“Chi si somiglia si piglia”) o per differenza (“Gli opposti si attraggono”), ma la pietra di paragone siamo – in ogni caso – noi.
La mancanza di autocoscienza dei propri pregi e difetti, delle proprie aspirazioni, dei propri desideri, pone dei forti limiti a questa “selezione” iniziale e, in casi estremi, può portarci ad assumere un atteggiamento camaleontico – magari in base a una momentanea fascinazione – e a convincerci che, una volta stabilito un contatto, sarà la relazione stessa a definire le sue fondamenta.
Un esempio può essere d’aiuto. Immaginiamo una persona che non sappia se, nella vita, sia per lei prioritaria la carriera o la famiglia, che non riesca a definire – almeno in astratto – una scala valoriale sulla quale vorrebbe modellare un rapporto di coppia. In che modo potrebbe definire “giusta per sè” una persona, se non in base a un momentaneo stato delle cose, al caso o alla contingenza che dir si voglia? In che modo potrebbe fare – pur inconsciamente – una scelta emotiva “competente”? I rapporti infatti implicano mediazione, apertura, flessibilità, ascolto e spirito di adattamento, ma sempre a partire da un profilo personale i cui contorni, pur in modo provvisorio (non si smette mai di cambiare nel corso della vita!) siano definiti.
Chi sono io? Chi sei tu?
Mediazione, flessibilità, ascolto dei desideri dell’altro – si diceva – fanno parte del quotidiano relazionale. Quando però i rapporti si strutturano, in premessa, su una fascinazione non basata sulla realtà (un’amicizia che ci ha attratto perché rappresentava una novità, un rapporto amoroso fondato sul cosiddetto “colpo di fulmine”), queste attività girano a vuoto. Se infatti una mediazione parte da una posizione A per arrivare ad una posizione C, frutto della discussione con una posizione B in cui si riconoscono possibili punti di contatto e allo stesso tempo di divergenza, in mancanza di una posizione A strutturata viene a mancare di premessa. Quando poi accade che anche la seconda posizione in causa non sia ben definita, ci troviamo davanti a un doppio tentativo frustrante.
Come possiamo pensare di stabilire una relazione con una persona se questa persona, in primis, non ha una relazione con sé stessa?
Banalizzando: come possiamo chiedere a un amico se preferisce andare a vedere un film horror o una commedia se questo non si è mai posto il problema di quale genere cinematrografico davvero gli piaccia? Due persone amanti di generi diversi possono decidere di mediare – una volta scelgo io, una volta scegli tu – in base ad un compromesso fra diversi, due persone amanti dello stesso genere possono dare per scontato che, almeno in quel campo, andranno sempre d’accordo. Poco o nulla invece si può fare per chi, non avendo mai approfondito più di tanto i propri gusti, si appoggia, più o meno momentaneamente, a quel che passa il convento. Con queste persone non sarà mai possibile instaurare un rapporto solido. Non sapremo mai, in fondo, con chi abbiamo a che fare.
Do ut des o del modo migliore per stressare un rapporto
Ma cosa succede quando due persone si trovano a vivere un rapporto di questo genere? In alcuni casi, pur partendo da premesse incerte, i bisogni e i desideri si definiscono via via nel contesto. Non di rado con la presa di coscienza di una diversità d’intenti e interessi da parte dei soggetti coinvolti. A questo punto, a meno che non si decida d’interrompere il rapporto (evento che diventa sempre più difficile al crescere della consuetudine), si rischia di trovarsi invischiati in un costante do ut des. Un venire incontro ai desideri – reali o supposti – dell’altro, nella speranza che un giorno le cose cambino e le aspettative finiscano col combaciare o che, almeno, ci sia una restituzione nei nostri confronti.
Anche in questo caso però è bene tenere presente che le persone non cambiano se non per un percorso personale.
Chi ha la pretesa di cambiare – o veder cambiare qualcuno – in nome di un rapporto ha già coscienza della non autenticità del rapporto stesso. In parole povere: se ti sono amico solo coltivando la segreta speranza che tu, un giorno vicino o lontano, decida di cambiare un lato del tuo carattere, allora – evidentemente – non ti sono amico. Amo l’idea di amicizia che proietto su di te, non l’amicizia in carne ed ossa. Lo stesso vale per le relazioni amorose: pensare che amare significhi avere il potere di cambiare una persona (anche con il più nobile e costruttivo degli intenti), significa anche che essere amati implichi un dovere di cambiamento. Un “vai bene, ma non abbastanza”.
Amare i difetti dell’altro è una cagata pazzesca
Quante volte nei film, nei romanzi, nelle serie tv abbiamo sentito dire “Amo tutto di lui/lei anche i suoi difetti?”.
Si tratta del primo stadio dell’infatuazione, che definirei concessiva.
Ti amo così tanto (o, in amicizia, mi interessi così tanto), che ti concedo di manifestare lati del tuo carattere per me sgradevoli o di fare cose che non condivido. Anche in questo caso finiamo con l’invischiarci in un bel bluff nel quale, una volta scoperte le carte (e prima o poi, se la relazione ha corso, le carte si scoprono) non può che emergere una grande insofferenza. “Ma come? Quando mi amavi davvero accettavi la mia passione per le tisane a base d’aglio!” con tutte le recriminazioni che ne conseguono. Anche in questo caso, senza arrivare agli estremi di un manuale con tutta la casistica degli elementi “spigolosi” della persona, conoscere i propri difetti (così come i propri pregi) risulta fondamentale per potersi mettere in gioco con onestà. Allo stesso modo ammettere, in barba allo stereotipo dell’amore/affetto che supera ogni cosa, che esistono parti dell’altro/a che troviamo insopportabili, non diminuisce, ma anzi rafforza – specialmente se supportati da buonsenso e autoironia – il legame.
Per portare avanti questo percorso però è necessario che, preliminarmente, ci siamo seduti in una metaforica stanza a riflettere su noi stessi, se non a definirci, almeno a definire le nostre priorità del momento, i nostri desideri, le nostre – lecite e non egoistiche! – ambizioni. Diversamente resteremo per sempre imprigionati in quella stanza, lamentandoci del fatto che nessuno abbia voglia di dividere con noi quelle quattro mura.
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