Costume
Il piccione nemico 2
Poco più di un metro. Riloga metallica di una vecchia tenda. Ed ecco la cerbottana. La sorella gentile della fionda. I piccioni continuano a zampettare, tubare e cagare, e mi fanno sempre incazzare. Ma anche divertire come un bambino. I due sentimenti possono combaciare? Pare di sì.
Non facevo bussolotti da 50 anni, dalle battaglie contro quelli delle case nuove, intorno alla torretta, nel cortile al confine. Palazzi costruiti quasi identici di fianco ai nostri, qualche anno dopo, e bastava questo per apostrofarle ‘case nuove’.
Il massimo dell’aggressività era la punta piegata a martelletto, salivata bene. Qualcuno si era spinto agli spilli, ma per la maggior parte di tutti era gioco infame. Eravamo bravi bambini. Anche se giocavamo alla guerra.
Quindi, per colpire i miei nemici piccioni parto dal bussolotto basico, a punta fine.
Prendo il foglio lucido di un settimanale, gli strappo una striscia, l’arrotolo intorno all’indice e allungo con un solo gesto, per poi far roteare in bocca la punta, tipo chupa chups. Si compatta alla grande, carta ideale, prendo la misura della circonferenza della mia arma bianca e strappo i centimetri finale del cono. La mia freccia a fiato è pronta. L’avevo nel DNA. Come andare in bicicletta. Come calciare un pallone.
Ne faccio una trentina, in poco meno di mezz’ora, compiaciuto della facilità e della precisione artigiana. Li metto in un vasetto, poggiato di fianco alla mia sedia sdraio e con la cerbottana stesa sulle ginocchia, a petto e piedi nudi, sguardo indigeno sotto occhiale scuro, resto in attesa del volatile invasore. Immobile. Giusto respirare.
Ogni tanto mi si abbassa la palpebra, per il caldo, e per l’ora da pennica del giorno di festa, ma la tengo al pelo: con la fessura sufficiente a farmi percepire il movimento scuro sul primo orizzonte.
Comunque sono qui, armato e convinto. Bramoso di attivare la mia contraerea infantile.
Ed eccone due. Prima sul parapetto, con quel loro procedere schizzato e prendiculo, dietro la sequenza dell’inferriata. Li seguo in diagonale, con la cerbottana tesa, labbra incollate, occhio che misura la linea più breve tra due punti… … e FIOM. Lo scrivo così, il suono. Da sindacato metallurgico. Ma non c’è relazione. Se non con il metallo della cerbottana, e il sindacare sull’opportunità di colpire un animale in fondo innocente.
La freccia di carta parte veloce, rimbalza qualche centimetro dalle loro zampette vicine, sfiora il becco di uno dei due. Spariscono in un lampo.
Soddisfazione tenue. Vedo planare una piuma bianca. La strizza gli ha fatto perdere il pelo.
Ma non il vizio. Il piccione dopo arriva addirittura dentro il terrazzo. Si avvicina, e becchetta nell’umido di un sottovaso. Non sente alcun pericolo: sarà troppo giovane, o così anziano da averle viste tutte. E allora lentissimo mi posizione la barra e sparo come se dovessi spegnere le candele di un centenario. Lo sfioro, vicino alla testa, immagino avrà percepito almeno il sibilo dell’attacco, e scappa via con quel battere fitto d’ali che, devo ammetterlo, è un suono che mi fa sangue.
Vado a recuperare il bussolotto, per risparmio e pulizia, e lo trovo conficcato nella grande foglia della calla. Dritto, preciso, un trafitto sospeso nel mezzo, come le frecce che disegnavamo, ai tempi della cerbottana, nei cuori infranti.
Buon segno. L’arma è funzionale: il dardo vola retto senza cedimenti, per buona distanza. Sto dando il meglio. So tornare bambino come si deve.
Il giorno prima, con mia figlia, abbiamo trovato fuori dal nostro civico, sul marciapiede, un piccione stecchito. Era bianco, intero, senza ferite, pasciuto. Non era stato un copertone. Probabile veleno. Non fa per me. Troppo subdolo. Continuo a inseguire il mio karma aborigeno.
Passano almeno venti minuti e niente. Scendo, bevo acqua, mi sforzo di mangiare frutta, e quando risalgo quel battere d’ali parte moltiplicato: faccio in tempo a vederne tre, che volano via, sempre da quel lato del terrazzo. È lì che devo tenere sotto tiro. Mi risparmio un emisfero da controllare. Risiedo, puntando solo il lato Sudest, visto che prediligono quella parte lì. Perché? Ci ragionerò. Intanto, sfruttiamo la statistica.
Il sole picchia. Sudo come un pirla. Ma almeno butto tossine e mantengo un po’ di colore. Che c’è un anno da viso pallido ad aspettarmi.
E lo vedo. Bello grosso. Camminare sul corrimano. Un tranquillo turista habitué.
Il bussolotto spunta appena dal profilo della mia riloga di precisione, vado a baciarlo e alzo il metallo verso quel corpo magico e bastardo: lui insiste a guardarsi intorno, io ripeto il mio soffio a pieni polmoni e la saetta lo colpisce in pieno petto! Ha un minuscolo sussulto indietro, poi sparisce.
Ora sì, che godo. Mi alzo e vado a vedere il mio dardo. La punta è piegata a novanta gradi. L’avrà sentita. Anche se il petto del piccione è la parte più robusta, un’armatura che si è evoluta per sopportare il controvento di lunghi voli. Sogno di colpirgli un occhio. E costringerlo a prendere anche lui la mira.
Torno a sedermi carico, ricarico l’arma, ed eccomi ancora in postazione all’erta. Anche se continua a ronzare l’impulso tossico di prendere lo smartphone. La tavoletta sdraiata al mio fianco mi chiama… Ma non la guardo. Riesco a resistere. Non cedo. Sento quasi una nostalgia, per quei bei tempi antenati, la vibra antropologica del raccoglitore cacciatore, che riempie il suo tempo dell’attesa nascosta, oltre a schiattare assaggiando l’ignoto. Nostalgia un po’ esaltata, che posso permettermi perché compro al supermercato solo quello che mi piace, con origine controllata, e non avendo niente in pericolo dal nemico, oltre alla distesa di stronzetti arricciati sul mio territorio. Lo so, è una battaglia contro il fastidio, sentimento senza alcuna epica, ma l’immaginazione è solida, e oggi sono un indios. L’invertebrato sempre connesso può aspettare.
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