Clima
Il piccione nemico
I piccioni non eran mai saliti al mio terrazzo. Quest’estate invece sono tanti, e con la spocchia: non han fretta di fuggire al mio arrivare, e il batter d’ali torna appena mi allontano. La semina di stronzi di minuscola fattura certifica il passaggio.
Leggiamo soluzioni all’invasione.
Appendiamo dei cd, come palle di Natale alla ringhiera e alla tettoia, che dovrebbero col gioco di riflessi far babau. Ma dopo qualche giorno di lontananza studio, son tornati: eran specchi per le allodole mentre loro son piccioni.
Sparargli con la pistola ad acqua, altra suggestione. Estiva, innocente, gioiosa. A quanto pare, potrebbe infastidirli, fargli capire chi comanda. Ed eccoci in allerta, avvicinarci quatti, e a pochi passi premere il grilletto, con sacro godimento cacciatore.
Il getto è troppo debole, però. Arriva come gocce di rugiada.
Da bambino ero convinto che vivessero tutti ai piedi del Duomo, il cui profilo cattedrale si intuisce all’orizzonte, e li vedevo innocui e affamati. Adesso sale invece il peggio dei pensieri, quello che da quando ci siam messi su due zampe ci accompagna. L’abbattere il nemico, per sopravvivenza. Il colpirne uno, per educarne cento. Forse mille.
E subito alla fionda, va il pensiero. Meno innocua della pistola ad acqua, ma sempre gesto da ragazzo, libidine antica. La ricerca dell’incrocio esatto del ramo, bivio robusto. E un bell’elasticone, a fettuccina.
Ma l’idea si scontra con l’altura. Quando lo manchi, il sassolino, o il nocciolo che sia, vola giù in strada. E dal nono arriva a terra da siluro. Più adatta la carabina, come il nonno di un’amica, che li fa saltare con piombini al culo, tiro al piccione che suona pratica sportiva. Ma non ho porto d’armi, e mi vedrei comunque barzelletta.
Insomma siamo qui, a riscoprirci ancora primitivi. Chiamati a resistenza e contrattacco. Il clima sbanda e sposta indietro la lancetta. Costretti ad allenarsi al cambiamento. Tutto il resto è velleità. Penso. Mentre guardiamo, ormai sfiniti, due piccioni, appollaiati alla ringhiera, che spostano a mitraglia collo e becco, brevi segmenti di presa per il culo. Sgranocchio due taralli con mano a cucchiaione sotto il mento, attento a non lasciar cadere briciole. Per non lasciar agli avvoltoi vegetariani, l’invito aperitivo. Mentre leggiamo sullo smartphone nuove ipotesi, come le spezie, gli aromi tosti, peperoncino e cannella per esempio, da mettere e lasciare in una ciotola da offerta: pare che spigoli d’olfatto li faccian titubare. E proprio in quel momento dalla coppia non gradita esce il grido breve e sordo del tubare. Più che timore sentono calore, aria di alcova. Forse per il nostro dire, di un piatto ben servito e afrodisiaco, captato tra le onde: han bussola interiore, miracolo che li fa dominatori dello spazio, e sono tremila anni che postano messaggi, pionieri dello smartphone.
Poi un sabato serale vengono a banchetto, coppia di amici cari e il loro cane. Un bel bastardo, col pelo di un marron testa di moro. Mi ricorda al volo quello del vinile di Gaetano, ‘Mio fratello è figlio unico’. Questo è però giovane e stupito, non macilento, come quello disegnato in copertina, che subisce il faro della scena e cova rabbia. E appena un bel piccione, credendosi padrone, si posa al pavimento, vicino al barbecue, lui scatta come deve e quasi lo agguanta. E poi succede ancora, altre due volte, fin quando fermo e all’erta al centro del suo ring, aspetta di buttarsi sulle prede con le ali. Che non prenderà mai. Ma intanto loro han smesso di scherzare.
Mi piego alle ginocchia, tentando di abbracciarlo. Non è cosa da fare, e infatti non ci riesco. Rimedio con la mano ad accarezzargli il gozzo. E lui si concede.
Domani mi mancherà. E i piccioni lo sanno.
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