Costume

Il futuro se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato

15 Ottobre 2024

Come molte cose, la cultura di massa non è più quella di una volta. Si potrebbe sintetizzare così la riflessione «puntuta» a cui ci invita Vanni Codeluppi con il suo La morte della cultura di massa (Carocci).

Molte cose, scrive Codeluppi.

Il punto su cui Codeluppi invita il suo lettore a soffermarsi è il fatto che ciò che è cambiato è lo statuto stesso di ciò che chiamiamo, o identifichiamo, con «cultura di massa».

Il punto di partenza non può che essere la riflessione che Horkheimer e Adorno fondano e definiscono in Dialettica dell’Illuminismo quando assumono la cultura di massa come industria culturale  che descrivono così: “Film, radio e settimanali costituiscono un sistema. Ogni settore è armonizzato in sé e tutti fra loro […] Film e radio non hanno più bisogno di spacciarsi per arte. La verità è che non sono altro che affari, serve loro da ideologia, che dovrebbe legittimare gli scarti che producono volutamente”.

Una dimensione in cui quella che viene indicata più che la cultura di massa, è la perdita o l’arretramento della cultura popolare originaria, alla cui difesa l’ultima voce può essere quella di Pier Paolo Pasolini nella sua amara riflessione sulla scomparsa delle “lucciole” (l’articolo esce nel febbraio 1975 con il titolo Il vuoto del potere in Italia sul “Corriere della sera” (qui il testo) anche se deve la sua fortuna, probabilmente, al titolo con cui compare nella raccolta Scritti corsari: L’articolo delle lucciole).

Cultura di massa non è questo, sottolinea Codeluppi riprendendo un’acuta osservazione di Umberto Eco nel 1964 e che poi raccoglie nel suo Apocalittici e integrati.  La distinzione non è sulla qualità ma sulle modalità di fruizione.

Sostiene Eco che la cultura di massa, se non nelle sue espressioni kitsch, non danneggia l’arte alta, dato che non si pone come alternativa ad essa. Ne discende, per esempio, che l’industria culturale di per sé non è negativa, ma lo è il consumismo, che vede i prodotti culturali (il libro, per esempio) come oggetti di merce: quando però esso veicola dei valori diviene strumento efficace per la sua diffusione.

Che cosa caratterizza quella riflessione? Per esempio una dimensione temporale. L’idea è che il tempo sia una componente fondamentale dell’industria culturale. Ovvero il fatto che non solo esista per chi la fruisce un tempo, ma anche essa sia qualcosa che consente di descrivere la vita quotidiana dentro un flusso dove sia possibile distinguere passato/presente/futuro. Una condizione che per prodursi include la percezione fondamentale che si dia possibilità di futuro.

È qui che è avvenuta una mutazione insiste Codeluppi.

La scomparsa del futuro come scansione temporale, la dimensione dominante di «presente eterno», include infatti non solo la abolizione della capacità di percepire la nutazione, ma anche l’incapacità o il congelamento di una qualsiasi aspirazione al cambiamento. La narrazione diviene allora comportamento nel tempo senza che si dia epilogo (non è questa forse la struttura narrativa delle serie televisive? Ovvero la possibilità che queste producano infinite “stagioni”. Una differenza rispetto al romanzo d’appendice che prevedeva una fine, una conclusione (non importa se trionfante, ottimistica o pessimistica, o consolatoria) che dunque esprimeva una filosofia della storia il che voleva dire confermare un’idea si attesa.

Abbiamo ancora un’attesa? Verrebbe da chiedersi O l’attesa si è eclissata o è stata allontanata per non cadere vittima di delusione?

Ma senza attesa è possibile pensare a un investimento di miglioramento? Se così è la cultura di massa non è solo tempo fermo. Diversamente la trasformazione sarebbe solo arretramento.

Oppure è possibile investire in processo di formazione fondato su più informazione? Laddove con «informazione» non si intenda solo avere più elementi, ma aumentare e innalzare il tasso di conoscenza.

L’inizio del ‘900, ricorda Codeluppi nelle pagine finali, aveva scommesso proprio su questo e una figura, forse dimenticata, ma certo essenziale per descrivere un progetto di crescita era stato John Dewey che proprio sull’accrescimento di educazione, aveva insistito per sottolineare come l’allargamento di democrazia sarebbe stato non la conseguenza non di una maggiore concessione di libertà dall’alto, ma di consapevolezza, di responsabilità e di «presa in carico» dal basso. Più educazione voleva semplicemente dire più democrazia. E viceversa.

La cultura di massa non era che questo nella sua proposta per «contare di più».

È ancora così?

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