Costume

Il 2017? Pensavo meglio

29 Dicembre 2016

Una sera di luci lontane echeggiavano spari,
in città, e sopra il vento giungeva pauroso
un clamore interrotto. Tacevano tutti.
Cesare Pavese

Pensavo meglio, questo ci dicono in genere le storie, soprattutto da quando alla mitologia dello scrittore si è sovrapposta quello dello storytelling, ossia la capacità non di produrre racconto, ma di generare desiderio e quindi rimpianto. Tutto questo ce lo ha spiegato benissimo il seppur ingenuo Christian Salmon con i suoi vari libretti più o meno ripetitivi: anche lui ha infatti generato il proficuo storytelling dello storytelling. Ma il dato forse più interessante è l’orgoglioso abbandono del povero homo faber in favore di una inconsistente tristezza emotiva prodotta da un essere privo di tecnica e razionalità come elementi di prefigurazione della realtà. Il risultato è dunque una realtà nebbiosa, priva di pasta, ma capace di circondare con le proprie ombre ogni gesto, ogni volontà. Le storie sono diventate come la buona parte degli scrittori italiani che non fanno gli scrittori, ma lo sono e che quindi non sanno farsi una storia, ma solo scriverla: tante parole ordinate in fila e nulla di necessario e urgente. Nulla da dire, ma solo ripetute litanie consolatorie. Il rimpianto è dato perché il futuro è proprio quello che si era immaginato e dunque sempre passato e perduto.

Pensavo meglio è l’unico pensiero che ossessivamente attraversa la mente di chi la mattina si sveglia addossandosi la sua dose di tempo perduto senza più però l’urgenza di ricercarlo, di riacchiappare quell’urlo feroce di orrore che era e sarebbe tuttora il rischio vitale dello sguardo. L’orrore di Conrad in Cuore di tenebra è l’orrore di ciò che si è fatto e non solo di ciò che pateticamente si è.

Pensavo meglio perché allo stato attuale non è più possibile recuperare o restituire le lettere e la foto di una giovane donna ignara del mistero e della vita dell’amato Kurtz. Una donna capace di fare del proprio desiderio non una parodia della realtà, ma il suo senso più profondo e quindi più intimo.

L’etichettatura, la costruzione di ruolo (anche pubblico che ormai appartiene a chiunque) elide ogni possibile spazio di contraddizione che è anche sinonimo di contemporaneità.

La capacità di dare forma ai propri desideri e non alle proprie frustrazioni in uno spazio di realtà è l’immaginazione di Emilio Salgari così come l’intuizione di Jules Verne o ancora come l’inesorabile condanna dell’essere presenti privi di dignità all’interno di un’avventura dettata dalla sparizione come descrive Michelangelo Antonioni tra le pietre assolate e ventose delle Eolie.

Bisognava scomparire nel nulla come Anna, la protagonista assente de L’avventura di Antonioni ed invece si permane, ma senza lottare, soli come delusi amanti di se stessi, privi di forze quanto di coraggio. La ricerca si fa vana e stanca e le cose vanno come dovevano andare, ed è un pensavo meglio di sofferente stanchezza.

Inutile ora fare l’elenco delle occasioni perdute, delle miserie politiche che si stanno apparecchiando in questo 2017 resta però il dato irriducibile di un desiderio incolmabile dentro cui vengono fagocitate esistenze prive di slancio se non quello di un nichilistico abbandono ad un’immaginazione quasi sempre colpevole per sé come per gli altri.

How I wish, how I wish you were here
We’re just two lost souls
Swimming in a fish bowl
Year after year

Abbiamo trasformato il rischio in una boccia per pesci rossi e ora nulla vale più la pena. Nemmeno un guizzo e dire che basterebbe solo sfondare quel vetro tondo, far sgorgare l’acqua e prendersi una beata paura per riscoprire l’ebrezza di una vita assoluta perché decadente, elegante perché scomposta, fantasiosa perché di nessun altra risorsa ha bisogno.

Si è pensato di farsi proteggere e poi si è pensato che chi ci aveva protetti sapeva lui proteggersi molto bene, ma eravamo in campo aperto, talmente abituati dal vento da non distinguerlo più dalla durezza dei nostri volti ormai induriti dalla polvere e dal freddo. Abbiamo ingaggiato guerre generazionali contro buffoni di una corte già abolita, abbiamo perso tempo dietro soluzioni già date e dimenticato di darci un nome per farci riconoscere. Avremmo voluto darci una felicità, ma abbiamo scritto troppo e dimenticato le parole. Scrive John Berger in E i nostri volti amore mio, leggeri come foto:

“Le sofferenze del presente e del passato hanno scarse probabilità di essere redente da un’era futura di felicità universale. E il male è una realtà costante non estirpabile. Ciò significa che la soluzione il venire a patti con il senso da dare alla vita non può essere differita. Del futuro non ci si può fidare. Il momento della verità è ora. E sarà sempre più la poesia, non la prosa, ad accoglierla. La prosa è molto più fiduciosa della poesia: la poesia parla alla ferita aperta.”

Pensavo meglio quindi perché non avevo che tempo a venire e gettavo quello reale capace invece di definire i contorni dei movimenti. Pensavo meglio e ora non vorrei più. Il 2017 è già qui, in parte sta già passando, How I wish è una chiave possibile con le sue ambiguità e le sue pur chiare volontà. Nulla da celebrare, ma un ordine da cambiare: viva la confusione, viva le cose lasciate e i pensieri dimenticati e anche viva i luoghi abbandonati. Non tutto deve avere senso, ma una volontà in un certo senso sì. Magari non una volontà ferma e nemmeno coerente, ma una volontà che sappia guardare con felicità alla confusione e al suo iniziale silenzio poco prima dello scoppio. Si vive sempre un attimo prima dello scoppio.

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