Costume

I divieti che non fanno crescere: sul caso delle treccine blu vietate a scuola

15 Settembre 2019

Riaprono le scuole e, come ogni anno, riprendono le polemiche riguardo divise, grembiuli, uso dei telefonini e dress code scolastico. Caso mediatico di questo settembre 2019 la decisione di una dirigente scolastica di vietare l’ingresso a scuola ad un tredicenne per le treccine blu con le quali si era acconciato i capelli. Il ragazzino, stando a quanto dichiarato dai familiari, sarebbe rimasto fuori dall’edificio in quanto la sua pettinatura sarebbe stata in contrasto con le regole di decoro dell’istituto. A prescindere da ogni considerazione in merito alla liceità di un provvedimento di questo tipo (se verificato nelle modalità di svolgimento dei fatti), che ha messo sostanzialmente “in strada” un minorenne inserito in contesto di scuola dell’obbligo, il tema delle scelte di “stile” delle scuole italiane da tempo è oggetto di dibattito, dentro e fuori il mondo della scuola. Riguardo alle scelte di dress code qualcosa era già stato detto anche su queste pagine e, in parte, la questione sembra senza soluzione, così come nel dibattito “grembiule sì/grembiule no” alle scuole elementari, le posizioni si mescolano al punto da rendere difficile distinguere quale possa essere, per i bambini, la scelta che garantisce la maggior libertà. Tutti uguali e quindi più liberi (dalle mode, dalle differenze economiche) o tutti uguali e quindi più irregimentati? Davvero basta un grembiule per impedire ai bambini di notare quelle diversità sociali che noi adulti quotidianamente rimarchiamo in mille altri modi?

Il tema delle treccine però solleva un’ulteriore questione, quella legata alla libera espressione identitaria che si esercita, non solo ma anche, attraverso le decisioni che prendiamo sul nostro corpo. Portare i capelli lunghi o corti, sfoltire le sopracciglia, depilarsi, farsi un tatuaggio o i buchi alle orecchie, tagliarsi le unghie corte oppure lasciarle crescere e coprirle di smalto, radersi la barba o lasciarla crescere, stirare i capelli ricci o farsi la permanente sono scelte che hanno un impatto sul nostro modo di rapportarci alla società che ci circonda (omologandoci o meno), ma – e le due cose sono in stretta relazione – anche per definirci a livello individuale. Alcune di queste scelte sono frutto di una moda e, quindi, anche di un percorso di omologazione che, a tredici anni, ha diverse funzioni: quella di sentirsi parte di un gruppo, di riconoscersi negli altri per affermare la propria appartenenza al mondo, oppure di “nascondersi” nella massa, per non spiccare ed emergere ed essere “come tutti”. Altre sono scelte di “trasgressione” (a tredici anni, comunque, quasi sempre in linea con un “profilo” trasgressivo specifico) e puntano ad affermare la propria identità per contrasto con l’altro. Questo accade anche da adulti e si tratta di un fenomeno psicologico che sta alla base non solo delle differenze individuali che, ogni giorno, notiamo intorno a noi, ma anche dei percorsi economici di grandi comparti produttivi come quelli della moda e della bellezza.

Ma torniamo al caso scolastico. Se già appare discutibile la scelta di imporre un certo stile nell’abbigliamento, senza che la scelta sia stata discussa ed elaborata insieme ai ragazzi, in un percorso educativo che possa far comprendere il concetto di vestiario adeguato ai diversi contesti, l’imposizione sul corpo dei ragazzi appare molto più complicata.

Una maglietta, un paio di pantaloni possono essere infatti facilmente cambiati dentro e fuori scuola, il trucco può essere applicato appena suonata la campanella di uscita così come un accessorio moda può essere estratto dallo zaino e indossato. Il colore dei capelli invece, così come la loro lunghezza, il tatuaggio, la barba o i baffi non possono essere “sostituiti” a piacere nel corso della giornata. Eppure sono parte integrante dell’identità di un giovane, così come di un adulto.

La dirigente, sempre stando a quanto riportato dalla cronaca, sembra abbia giustificato la sua scelta dicendo che è propedeutica all’ingresso nel mondo adulto dove, a suo parere, nessuno offrirebbe un lavoro ad un ragazzo con le treccine blu. Ci si dimentica però che la scuola non deve preparare dei futuri lavoratori, ma degli adulti capaci di scegliere per sé stessi, sicuri della propria individualità e anche dei “confini” valicabili o meno dalle richieste della società che ci circonda. Un adulto consapevole può decidere se accettare le regole di un luogo di lavoro che, ad esempio, gli impone di tagliare i baffi per poter prestare servizio, così come in alcuni settori i capelli colorati vengono considerati non “trasgressivi”, ma perfettamente in linea con le richieste di stile dell’azienda. Non sappiamo quale strada potrà intraprendere un tredicenne di oggi rispetto al mondo della formazione o del lavoro, né abbiamo la capacità di prevedere cosa sarà considerato “normale” fra dieci, vent’anni.

Questo però non significa procedere con lassismo e abdicare alla funzione educativa. L’ingresso va garantito, nel rispetto delle scelte individuali, che però devono implicare anche un’assunzione di responsabilità. Un piccolo aneddoto personale: quando frequentavo il liceo avevo una passione (insana, col senno di poi) per gli abiti di colore fluorescente. A prescindere dal mio pessimo gusto, una delle mie professoresse riteneva che non fosse opportuno vestire con abiti così vistosi in classe. Così, ogni volta che li indossavo, sapevo che mi avrebbe interrogata e, ogni volta, cercavo di fare del mio meglio per dimostrare che il mio voto in greco nulla aveva a che vedere col colore della mia maglia quel giorno. A chi decide di fare scelte in controtendenza rispetto alla norma, in un contesto, non dimentichiamolo, di obbligo scolastico, e quindi di uno stato che deve garantire a tutti l’istruzione, va insegnata l’assunzione di responsabilità individuale. Il ragazzo tatuato deve sapere che, nel contesto italiano di oggi, i suoi tatuaggi rappresentano ancora un problema per alcune persone e che, se deciderà di portarli addosso, dovrà probabilmente dimostrare nei fatti, con più cura e serietà, le sue capacità. La bella ragazza che deciderà di truccarsi e scegliere un abbigliamento alla moda dovrà essere preparata all’idea che, sempre nel nostro paese, esiste ancora una forte discriminazione verso il mondo femminile (in generale) e verso quelle che curano molto il loro aspetto esteriore. La scuola dovrebbe formare, insegnando che “l’abito non fa il monaco” ma che, visto che ad oggi in molti casi è ancora così, ciascuno deve essere consapevole che il proprio corpo rappresenta il primo approccio con il mondo che lo circonda e che occorre farsi carico, ogni giorno, delle proprie decisioni. Un approccio di questo tipo serve solo a portare avanti, in modo del tutto anacronistico, l’idea che esista un modo di essere “giusto” e uno “sbagliato”, delle identità che vanno bene e altre che devono essere cambiate. Il “miglior risultato” di questo percorso non è tanto l’omologazione del tredicenne ad un regolamento d’istituto (rispetto al quale, a differenza del futuro lavoratore, il ragazzo non può scegliere, perché deve assolvere all’obbligo scolastico), ma veicolare un messaggio contro ciò che è “diverso”. Chi impara la lezione, quindi, rischia di trasformarsi in un adulto rigido e intollerante, incapace di vedere la persona sotto lo schermo dell’apparenza e di valutarne pregi difetti, valori e disvalori e perfino la preparazione. Il colore dei capelli cambia, insomma, l’intransigenza, se appresa da piccoli, resta.

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