Costume
Giornalismo. La foto del morto
Non ce n’è uno, tra i vecchi cronisti, che non racconti di quella volta che gli era toccato di recuperare ‘la foto del morto’. Almeno una volta a tutti era toccato bussare alla porta di casa di una persona scomparsa, spesso dando notizia ai familiari, cercando di ottenere la fotografia del poveretto. Con la delicatezza del caso. O, comunque, in ogni modo. Ché il giornale della foto a corredo della notizia proprio non voleva o sapeva fare a meno. C’erano giornalisti diventati avvezzi a queste cose. Abili a farsi consegnare, tra una lacrima e un singhiozzo, una parola dolce e un abbraccio sincero, l’immagine da mettere in pagina.
Oggi ‘la foto del morto’, non la si va più nemmeno a cercare. E’ lo stesso morto che la consegna al mondo: basta collegarsi alla rete, aprire Facebook, Instagram o Twitter e tutto quello che si vuole e lì, bel bello, a disposizione. Pronto per essere ‘saccheggiato’. D’altronde, con grande nonchalance, ogni giorno, di ora in ora, apriamo le nostre vite agli amici e all’universo-mondo, disseminiano tracce dei nostri spostamenti, di quel che ci piace mangiare, acquistare, rimirare con passione. Disseminiano fotografie: belle, brutte, buffe, studiate o naturali. Selfie con le smorfie più improbabili, la bocca ‘a culo di gallina’. Che ci divertono, che raccontano chi siamo. Che restano lì, per sempre. Alla mercé, più o meno, di chiunque.
Da una manciata di giorni, sui quotidiani, si racconta della morte di una ragazza di 22 anni, madre di un bimbo di 5, stritolata da un macchinario mentre era al lavoro in una azienda tessile nel Pratese. Se ne parla – giustamente – perché nel 2021 è impensabile che si possa morire sul posto di lavoro tra protocolli di sicurezza e tutele. Ma se ne parla, tanto, perché a perdere la vita è stata una bella ragazza con molte sue foto che i quotidiani hanno mandato in stampa. A partire da un collage di immagini tratte dal suo profilo Instagram in cui compare con diverse attrici e l’attore-regista Leonardo Pieraccioni dopo avere partecipato, come comparsa, al film ‘Se son rose’ diretto proprio dall’artista toscano. Pagine su pagine. Spazio che, di solito, le morti sul lavoro non guadagnano. Troppo tristi, troppo angoscianti. Scure nella loro tragicità. Ma stavolta la cupezza viene squarciata dalle foto, dal sorriso della ragazza, dalla sua bellezza affidata ai social. Così a portata di mano. Pure per i media. Che carpiscono con brama. Che si commuovono e si soffermano sulla tragedia delle morti sul lavoro – sono state diverse in queste ore – quando a perdere la vita è una persona di bell’aspetto, in questo caso una donna, con un corredo fotografico adeguato. Si commuovono, con un filo di ipocrisia, quando ricordano il suo essere mamma di un bimbo, di solito uno stigma, sul lavoro, per ogni donna. Si commuovono per la bellezza di quelle foto agganciate ai social, subito messe in copertina, che saranno per sempre l’epitaffio visibile della giovane scomparsa. Il suo ricordo indelebile. Istantanee prese con facilità, senza nemmeno dover chiedere. Pescando tra quello che pare più adatto. Non un gran comportamento vien da pensare. Ma il mondo, ormai, va così, si dice. E si dice male, per me
Perchè poi, su quelle immagini, i quotidiani, i media impostano il loro storytelling – come s’usa dire di ‘sti tempi – costruiscono la loro narrazione. E così ci si ritrova con l’articolo del ‘giornalone’ che invece di soffermarsi sulla tragedia ci fa sapere – entrando in casa per chissà quale pezzo verità – quanto bella fosse la ragazza, ci racconta dei gatti disegnati sulle ciabatte di plastica appoggiate vicino al letto, dei profumi e delle creme anticellulite. Che le piacevano le penne col ragù e le lasagne. Che guardava Amici. Magari sognando di far parte del mondo dello spettacolo. Il mondo, ormai, va così, si dice. E si dice male.
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