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Filippo Barbera: per un lavoro liberato, luogo di efficacia e ricerca di senso

23 Marzo 2024

Una rilettura dell’ormai classico Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente di François Jullien a cura di Filippo Barbera, Ordinario di Sociologia Economica presso il Dipartimento CPS dell’Università di Torino e autore del volume Le piazze vuote (Laterza, 2023). Barbera riflette, riprendendo il pensiero di Jullien, sul senso del lavoro oggi nella contemporaneità, sulla necessità di una nuova azione collettiva e sulla costruzione di senso in particolare per le nuove generazioni.

Senso dell’azione ed efficacia dell’azione sono spesso pensati in modo alternativo, come scelte dicotomiche. Così, i “cercatori di senso” sono rappresentati come persone astratte, poco interessate agli effetti “concreti”, sognatori, visionari e intuitivi. Al contrario, gli “efficaci” rimandano all’immagine dell’agire strumentale, chiamano in causa le relazioni mezzi-fini, la produzione e misurazione degli effetti e la razionalità tecnica. In un vecchio ma sempre attuale libro, il sinologo Francois Julien suggerisce un’altra strada. Il libro è la traduzione della “conferenza sull’efficacia” in cui François Jullien sintetizza a un pubblico di manager la differenza tra il pensiero occidentale e quello cinese a proposito della concezione dell’azione. Il pensiero occidentale ha le proprie radici nella concezione greca di modellizzazione: intenzione-modellizzazione-applicazione-realizzazione. Si tratta di una concezione che sfocia nell’agire produttivo (della póiesis), nell’identificazione galileiana della matematica come linguaggio della natura. Nel pensiero greco arcaico era però presente una diversa concezione, risultata poi perdente nell’evoluzione delle idee, basata sul concetto di Metis (“fiuto”), intesa come capacità di trarre vantaggio dalle circostanze, di scoprire i fattori portanti in seno alla situazione per lasciarsi trasportare da essi.

È, questa, un’idea che si avvicina di più alla prospettiva cinese, in cui è meno accentuato il ruolo dell’iniziativa soggettiva dell’autore dell’azione rispetto al contenuto contingente della situazione. In sintesi: “Mentre in Europa il pensiero della modellizzazione porta a pensare l’efficacia in termini di adeguazione tra mezzi e fini, quello cinese si basa piuttosto sull’idea di sfruttamento della propensione, in analogia al contadino che agevola senza forzare il processo della trasformazione naturale. Anziché sul telos e sul compimento, come fine che attrarrebbe a sé il divenire, il pensiero cinese si concentra sull’interesse o vantaggio, sulla disposizione che se favorevole va appoggiata e sfruttata, se sfavorevole modificata. Insieme all’accento sulla propensione, si definisce anche il diverso statuto dell’effetto: questo, come il frutto della pianta, va lasciato maturare, va cioè rispettato nel suo processo spontaneo di crescita, non forzato dall’attivismo finalizzato del soggetto ma neanche trascurato.

L’analogia con l’agire del contadino e del “coltivare” si trova anche in un autore come Friedrich von Hayek, il quale sostiene che la regolazione dell’economia e dell’agire sociale deve essere pensata come un’attività di “coltivazione” delle capacità di auto-organizzazione della società, più che ad un’attività di “controllo diretto”.  Quindi: “(…) coltivazione nel senso in cui l’agricoltore o il giardiniere coltiva le sue piante, dove conosce e può controllare solo alcune delle circostanze determinanti, e in cui il saggio legislatore o statista probabilmente cercherà di coltivare piuttosto che di controllare le forze del processo sociale (Hayek, F.A., “Degrees of Explanation”, in Studies in Philosophy, Politics and Economics, London, Routledge & Kegan Paul, pp. 3-21, 1967). F. von Hayek era un teorico dell’ordine spontaneo (tipo cosmos) che contrapponeva all’ordine costruito (tipo taxis). Nel primo caso, l’ordine viene creato in modo endogeno rispetto al sistema stesso. È, quindi, un suo prodotto, non una forza esogena che agisce dall’esterno per regolarlo in nome di una razionalità tecnica superiore. È, questa, una concezione non dissimile da quella di John Dewey e della sua concezione pragmatista o “sperimentalista” di ciò che egli chiama intelligenza o indagine (inquiry) come risoluzione di problemi. L’obiettivo del problem-solving non è arrivare a un quadro certo della natura delle cose – quello che Julien chiamerebbe modellizzazione e Hayek ordine tipo taxis – ma trovare una soluzione inevitabilmente provvisoria al problema pratico e intellettuale che l’ha innescata. Il problem-solving deve essere inteso come parte della nostra quotidiana lotta con un ambiente oggettivamente precario ma migliorabile. Le sfide che dobbiamo affrontare ci spingono sempre a fare un passo indietro, a identificare il problema che abbiamo di fronte e a riflettere sul da farsi. La concezione di Dewey va intesa come un modello generale di intelligenza riflessiva: lottiamo con i problemi in tutti i settori dell’esperienza umana, compresi l’arte e l’etica. Di conseguenza, i valori possono essere veri o falsi in senso pragmatico, rispondenti alle ragioni e correggibili alla luce dell’esperienza. I valori sono risposte riflessive a situazioni problematiche, che non escludono il ragionamento strumentale sui mezzi: se la nostra strada verso la spiaggia è bloccata da una roccia gigante (la situazione problematica), possiamo riflettere su cosa comporterebbe prendere un’altra strada, scalare la roccia, farla esplodere con la dinamite e così via (e possiamo provare immaginariamente le opzioni). Ma include anche una critica riflessiva dei fini: se il viaggio ora deve includere una faticosa scalata della roccia, possiamo riconsiderare quanto sia importante il nostro fine di arrivare alla spiaggia. L’indagine come giudizio pratico comporta la riflessione e la revisione dei nostri fini, alla luce di ciò che comporta per noi raggiungerli, e questo spesso ci porta a trasformare creativamente i nostri valori e a sviluppare nuovi fini.

Ho sintetizzato queste tre posizioni (Julien-von Hayek-Dewey) per mostrarne la convergenza rispetto a tema con cui ho aperto queste note: la falsa dicotomia tra senso dell’agire ed efficacia dell’azione. Se questa falsa dicotomia diventasse regola organizzativa, molti dei “problemi di senso” che attraversano oggi il rapporto tra giovani e lavoro sarebbero, se non risolti, fortemente ridimensionati. Le organizzazioni produttive dovrebbero così essere intese alla stregua di strumenti collettivi per accompagnare i processi di ideazione e attuazione, offrendo ai giovani l’opportunità di orientare via via obiettivi e standard concreti, modificandoli (eventualmente anche riducendoli o modulandoli nel tempo) e così rendendo loro più conveniente rischiare l’adozione di comportamenti innovativi e pro-attivi. Anche per questo, se vogliono rispondere ai problemi di senso, le organizzazioni non possono essere disegnate a tavolino. Al contrario, devono essere il frutto di esperienze concrete, di successi e insuccessi, di ostacoli che hanno avuto luogo in condizione di elevata incertezza sulle soluzioni concrete da adottare e, dunque, di forte resistenza a rischiare il cambiamento. Solo ricucendo il rapporto tra ricerca del senso del lavoro e produzione di effetti in condizioni di incertezza, si potranno generare nuovi modelli organizzativi in grado di rispondere alle nuove sfide poste dalla rivoluzione tecnologica, dai nuovi equilibri vita-lavoro e dagli orientamenti esistenziali delle nuove generazioni.

Filippo Barbera

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