Costume
Non vergogniamoci di avere paura: solo così nasce il coraggio
Del coraggio si può avere un’immagine eroica o una civile. La prima presume la solitudine, la seconda un linguaggio condiviso. Solo se non si fa atto eccezionale, ma patto politico tra sudditi o oppressi, il coraggio diviene una virtù. Diversamente è la caratteristica di un eroe solitario che poi si presenterà, in forza di quel precedente, a chiedere il potere in nome della sua “prodezza” in tempi lontani. È qui che mi sembra risiedere il nocciolo duro della riflessione che Umberto Ambrosoli propone nel suo Coraggio (il Mulino).
‘Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare’, dice Manzoni giustificando il suo personaggio. Il passo è al capitolo XXV de I promessi sposi ed è la riflessione che Don Abbondio dice a se stesso al termine del colloquio con il Cardinale Borromeo. Come sappiamo dalla storia la prova di coraggio alla fine si paga, non solo in termine di propria tranquillità, ma anche di vita. Fra Cristoforo che appunto con coraggio si ribella, paga il prezzo della sua ribellione, Don Abbondio, alla fine rimarrà lì, dove si trova. Si potrebbe dire che la frase, nell’economia del romanzo è efficace, ma non è del tutto giusta.
La paura non è una condanna del destino, né una condizione caratteriale. Soprattutto non è una virtù in sé della società civile. Se si dovesse tirare le somme del doppio principio che ha contrassegnato storicamente l’agire e il pensare, della società civile in Italia, non sarebbe difficile individuare la sintesi nelle due massime contigue e reciprocamente funzionali del “tengo famiglia” e “mi faccio i fatti miei”. La replica alla paura è l’atto eroico in presenza e nell’era del dominio di queste due massime contigue. Per questo il primo segnale della replica coraggiosa è rompere con il codice individualistico.
Il coraggio è la risposta timida alla paura, ma soprattutto è una risposta che nasce da un dimensione individuale che mette in gioco una parte di sé, con altri. Meglio che va a cercare altri per potersi manifestare. Umberto Ambrosoli nel suo Coraggio, lo dice più precisamente: “Coraggioso è chi rinuncia quando riconosce umilmente l’inadeguatezza delle proprie risorse e delle proprie energie alla sfida che il pericolo gli pone, ma non lo fa prima di aver distillato dal suo essere ogni goccia di quell’energia. E solo la paura riuscirà a tirargliela fuori “ [p. 100]. Il coraggio, dunque, non è l’atto solitario, ma la decisione di reagire, riconoscendo la paura come collante sociale, e volendo recuperare e ritrovare un senso al vivere insieme di un gruppo umano. Ma avendo cognizione che il coraggio non è l’atto eroico e che all’origine è la paura.
La paura è dunque un motore molto forte e per ceti aspetti costituisce un elemento generativo della possibilità del coraggio. “Cedere alla paura – prosegue Ambrosoli – è non volere vivere”. Del resto: non è proprio la paura il fondamento politico che fa da premessa alla sottomissione rispetto alla supremazia del potere assoluto? Cos’ è la proposta di Hobbes nel suo Leviatano se non la paura come macchina generativa della politica?
La paura è dunque un grande tema politico ed è su quel grande tema politico che è possibile trovare il senso del coraggio come replica civica. È esattamente a questo livello che si fonda il coraggio come virtù, coraggio che sa misurare i suoi limiti, e dunque tale da non tradursi in culto del sacrificio. In fondo quando parliamo di Resistenza come scelta, come atto che mette a tacere il doppio codice di “tengo famiglia” e “mi faccio i fatti miei”, non parliamo forse di qualcosa che è la replica alla “paura”? E la sconfitta dell’autocrate non sta proprio nell’atto che prende carico della paura che si prova e gli risponde in termini di crollo del vincolo di sottomissione?
“La lotta è politica – ha scritto una volta Vittorio Foa – quando gli uomini stessi che la conducono si educano (singoli oppure fra loro associati) a liberarsi dalla loro stessa paura nei confronti della passione, della libertà, della responsabilità, quando essi imparano a costruirsi i loro propri strumenti di azione (anziché affidarsi agli strumenti altrui) e quindi a riconoscere le loro proprie capacità creative”.
Ecco lì sta il senso e il fondamento del coraggio come virtù civica.
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