Costume

Cronache dalla quarantena. Le foto e le onde

28 Marzo 2020

Penelope e le amiche si scambiano in questi giorni i loro scatti d’epoca. Foto che le ragazze vivono con l’incredulità di una vita precedente, ma che avranno al massimo dieci anni.

La casa è il contenitore dei reperti. E la quarantena un cagnolino che annusa negli angoli. Scava con le unghie. Trova l’osso che aveva seppellito. E ne seppellisce uno nuovo.

In attesa di tornare a correre dietro un legnetto lanciato.

Un’amica mi ha scritto che lei soffre nel vedere lo sguardo del suo cane, nel quale legge proprio questa domanda: Perché non andiamo a correre nei campi? Il Sapiens lo sa, perché non può correre, o pedalare, ma lui no. Non esiste un’ordinanza che possa parlargli. Soffrire come un cane, in questo caso, è un esempio che trova la sua giustificazione.

Ma torniamo alla semina delle foto del passato. Non so se leggere in questo sintomo da focolare una ritrovata intimità, lo smettere di correre (e daje!), il voltarsi a riconoscere da dove arriviamo e il percorso fatto. Insomma, una specie di passo indietro prima della rincorsa. Oppure se siano più vere le parole spietate di Davide Brullo, nel suo libro Un alfabeto nella neve: “Ogni ritorno è un indizio di morte. Si ha voglia di incontrare chi abbiamo amato molti anni prima per capire qualcosa di noi che ora è perduto. Per questo, ogni ritorno è una sconfitta – le origini esistono perché abbiamo la forza, confusa e viziata, di allontanarcene.”

Scegliete. E subito allontaniamoci dal troppo profondo, che poi ci si annega. E restiamo a galla, come Venezia. Della quale i quotidiani mostrano la foto del Bacino di San Marco, prima e dopo lo stop alla quotidiana invasione. Oggi si vedono i pesci. Frase bambina per dire che l’acqua è una piscina.

Ma quelle che più mi piace guardare, giusto per fare due passi, sono le immagini della mia città deserta. E quando ci compare un umano, risplende come un sopravvissuto.

Tengo per me le divagazioni d’antropologia futura, stronzate sulle parallele e incoscienti volontà ecologiche del virus. E torno a guardare giù, oltre la ringhiera, dove possono ancora radunarsi i miei simili.

Nel parcheggio del Simply ci sono sei persone in attesa. Neanche tante. Quasi quasi faccio due passi (di numero) e vado a prendere l’insalata in busta che è finita, perché è stronzetta, e scade presto.

Ma no Maurizio, fai il serio e stattene a casa!

Ok, resto però in terrazzo, anche se fa un freddo becco. Il momento ginnastica con la Brigi lo abbiamo fatto in stanza, ho le ginocchia a spilli, ma l’ora d’aria devo prenderla: sotto un cielo con sfumature piombo, vestito come un clochard, accumulando un indumento sopra l’altro, tanto non mi vede nessuno: per un milanese poter non rispettare il look adatto alla socialità è un bel momento di libertà, sprezzante della formalità. Rima alla terza. La trap ce l’ho dentro.

Inquadro con interesse i soggetti mascherati in attesa di entrare nel supermercato. L’ultimo della fila ha solo uno sciarpone, che lo avvolge fino alla fronte. Ed è una sciarpa della Juve. Più che mascherina, il suo è un urlo soffocato di astinenza. Funzionerà contro l’umido stronzetto? Li abbiamo ormai visti tutti i modelli di mascherina, e a quanto pare funzionano poco e un cazzo, quindi massimo rispetto per il tifoso (anche se gobbo) che vorrebbe essere in curva e invece è in coda.

Cammino, che mi scaldo. E lubrifico pure l’orbita della rotula che pulsa.

Ho silenziato le notifiche ma lo smartphone lo alzo agli occhi comunque, specchio delle mie brame, e tasto il cerchietto green con la pallina tangenziale. Un vecchio amico mi allega la foto del retro di una cartolina. Aprile 1988. Gliela mandai dalla Spagna. “Me gusta todo a qui. Chica, porro e cerveza…”

Non c’erano altri motivi per andare in Spagna. E non si è mai troppo originali, quando ce la si può godere.

Questo mio caro amico ha riesumato cartoline dal tempo che fu. Ha fatto uno step, ai ricordi. Lo chiamerei un salto di qualità, il paradosso di recapitare in un’istante il viaggio fisico di una cartoncino saluto. Che rappresenta la negazione del rapido presente.

A questo penso, quando sento la voce di Penelope.

– Sei inguardabile papo!

Qualcuno ti guarda sempre.

Mi giro su me stesso, non vedo nessuno.

– Sono qua!

Sul tetto sopra di noi, quello definitivo del palazzo, seduta come un pellerossa, con un libro in grembo, tre cappucci di felpa uno sopra l’altro. È salita dalla scala privata per la caldaia: sono solo tre metri in più d’altezza, ma lei dice che è diverso, più emozionante.

– Papi, fai troppo ridere, che cammini avanti e indietro così conciato.

E dopo la sentenza, inizia a ripetere ad alta voce la pagina che sta studiando. Fisica, il suono e la luce.

– L’onda è una perturbazione che si propaga nello spazio, generando energia, ma non spostando materia…

Beh, facile, la rete è l’Onda con la maiuscola. E mentre riparto a fare l’animale in gabbia vestito inguardabile, mi viene in mente una barzelletta. Quella del tipo con la merda fino al collo, che supplica: Non fate l’onda, non fate l’onda!”

 

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