Costume
Cronache dalla quarantena. Il virus illuminato
Circa l’80 per cento dei contagi arriva da chi è asintomatico o con lievi sintomi, dice un modello matematico. Questa è la situa (tutte le sillabe finali stanno decadendo, da quando vivo e parlo con le mie figlie). E mentre con lo smarphone impugnato come un amuleto bevo il mio caffè lungo e ingurgito la mia dose spremuta di limone, immagino questo esercito di umani che si muove ignaro e infetto. Pronto ad esplodere. E sogno il miracolo tecnologico capace di accendere come un led la presenza del virus. Vederlo illuminare i polmoni del vicino. Posato come un gufaccio microscopico sulla maniglia dell’ascensore. Balenare sul metallo lucido della cassa del supermercato. O più romanticamente, lampeggiare nel paesaggio urbano, offrire l’impatto di un mantello fluorescente. Giusto così, per sconfiggere il pericolo occulto dell’asintomatico. E risparmiare i tamponi che non abbiamo.
Conviene digerire qualche punta di umorismo.
Anche perché il drammatico ci pensa da solo a farsi strada.
I numeri ci dicono anche che i maschi sono più interessanti per il mostricciatolo. Ho letto l’ipotesi degli uomini maggiori fumatori, e il polmone è l’abitat di riferimento. Poi ho smesso di documentarmi. Non ci sono risposte. E allora ognuno può inventarsi la sua. Io dico che le donne sono più combattive. E più utili alla specie.
Si potrebbe anche farsi un film ragionando intorno al fatto che il mostriciattolo arrivi dal pipistrello. Che cazzo di animale strano, questo nostro fratello mammifero! Io ne ho conosciuto uno. Nella nostra prima e piccola casa da sposati. Tornammo da uno di quei bagordi vietati in queste settimane, e quando ho acceso la luce del bagno è partito improvviso il suo volo schizofrenico. Era entrato dalla finestra socchiusa. Si era appostato su un piccolo soppalco. Cercai di farlo uscire sventagliando come una scimitarra un’asciugamano, e questo faceva imbizzarrire i suoi radar. Quando mi sono fermato, esuasto, e brillo, lui se n’è andato. Quindi fermiamoci. E beviamoci su. Volerà via.
L’ottimismo viene però colpito duro dalla parata di tombe a Bergamo, un immagine cicatrice che lo smartphone si appresta a farmi conoscere, e mentre scendo in cantina a prendere la bici cerco di nuovo pensieri positivi. Tipo che dopo tutti questi anni di gente che non sa fare un cazzo e per questo ha sempre e solo fatto politica, finalmente risalta la voce di chi può raccontare qualcosa che non sappiamo, e che serve. E che sono, guarda caso, quelli che erano targati dai primi e con disprezzo: ‘elite’.
Diradano anche quei soggetti che vengono chiamati giornalisti senza motivo, con i loro balbettii speculativi, il loro gnegnè contro il governo. Il governo è questo, il momento è questo. Quando sarà ne riparleremo.
La gente che non ha nulla da dare, oggi non ha nulla da dire.
Bene, alzo il mio triplo bavero da bandana militare, combattivo come una donna, incazzato come un uomo, e parto verso piazzale Lagosta. Mia madre ha finito le sue medicine irrinunciabili, e il suo dottore è malato. Le ricette gliele ha potute fare una dottoressa che dista 5 chilometri.
Da piccolo credevo fosse un ossimoro, dottore e malato.
Ho il mio modulo, di quelli nuovissimi, compilato. Parto da qui e vado là. Scrivo anche il telefono della dottoressa. Pure nome e cognome di mia madre, alla quale sono intestate le ricette.
Davanti all’Esselunga di viale Suzzani le file dei pronti al saccheggio sono disposte in verticale, dove una volta c’erano le auto, ordinate sotto quadratini bianchi sui quali c’è un numero che va dall’uno al cinque. Una partenza di maratona con carrello. Alla quale a breve parteciperò anche io, visto che il mio spesone ha ormai sette giorni e il mio frigo si avvicina agli umori da socialismo reale.
Per fortuna sto pedalando, sono in regola, e c’è pure il sole: eccola la vampata di buonumore. Andrà tutto bene? Boh! Intanto pedalo. E parte la mia suoneria, con Atlandide di De Gregori, tanto per dire che il mio mood è goloso di malinconia.
Ascolto fino a quando lui stravede per una donna chiamata Lisa, e cade la chiamata. Chiunque sia, richiamo appena giunto alla meta.
Arrivo al portone della dottoressa. Citofono. Intanto mi si avvicina fin troppo una donna anziana a bocca nuda, in pantofole e calze di cotone spesso al ginocchio. Ha i capelli tinti di giallo paglierino lucente. O forse, il lucente non può essere paglierino: non lo so, tratto i colori come suggestioni. La donna mi dice subito che ha quasi ottant’anni. Certo, un traguardo del quale andare orgogliosi. Io sono qui, voi chissà dove arrivate! Dice il fumetto del narratore. Poi aggiunge con voce ansiosa che è venti giorni che sta sul balcone e non ne poteva più. Doveva uscire. E parlare con qualcuno, ovviamente. E io sono arrivato con la mia bici, e ho citofonato a una dottoressa. Devo averla ispirata. Le rispondo che ha fatto bene, e magari domani fa un altro giretto, però piccolo piccolo.
Sì, sì, ha ragione, torno a casa adesso, risponde; si volta e va.
Pare rinfrancata. Dalla tomba del suo quotidiano, una manciata di parole l’hanno dissetata. Fanculo, cazzo. Dovevo prenderla in braccio, tanto io ho la mia tripla bandana, e mettermi a correre!
Salgo le scale e trovo sulla soglia la dottoressa mascherata che mi allunga il braccio come Elastic Girl, per passarmi le ricette di mia madre. Agguanto come in staffetta e rifaccio gli scalini tre alla volta. Quando torno al marciapiede cerco quella donna con lo sguardo. Ma non c’è più.
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