Costume
Cronache dalla quarantena. Il vecchio e il bambino
Nella precedente cronaca ho scritto tre righe sullo spaesamento di un cane che non viene più portato a correre in un prato. Su quello sguardo al quale non puoi spiegare i fatti. Una situazione che io non vivo e non ho mai vissuto, non avendo mai avuto con me un cane, ma grazie al racconto di un’amica l’ho riconosciuto come uno dei tanti ‘sintoni’ della quarantena umana. E puntuale è scattata la voce di qualche Indignato, categoria di inossidabile e larga percentuale che non sa distinguere, nè tantomeno aprire il suo orizzonte: c’è sempre qualcosa che non va, che non basta, e soprattutto che non lo comprende. “E allora i bambini? E i vecchi che sono terrorizzati?”
Come se considerare l’esistenza dei cani escludesse l’esigenza di bimbi e anziani. I cagacazzo di professione: definizione presa dal vocabolario di Vincenzo De Luca.
Non ho mai avuto cani ma ho avuto due bambine. E soprattutto sono stato bambino. È sempre viva l’immagine di me, otto anni, che guardo dalla finestra verso il cortile con gli occhi languidi di un lungo addio. Non posso uscire di casa perché ho un brutta bronchite; mia madre mi ha spalmato il Vicks Vaporub sul petto e sopra ci ha steso un panno di lana infuocato dal ferro da stiro. Dubito parecchio sull’efficacia del metodo, che andava alla grande nei primi anni ’70, ma non ho mai voluto sondare per non maturare rancori inutili. Mi tengo stretta la cura totale, la sua feroce attenzione.
Resta che furono cinque giorni che non dimentico. La sensazione di ingiustizia, quasi la rabbia, per la prigionia. E lampi di nostalgia, verso il correre, nascondersi, calciare, incontrare la ragazzina che mi apriva universi confusi…
Ed erano solo cinque giorni, giusto un frammento di quarantena. Incisi nella memoria. Quindi, so bene cosa pulsa nel cuore e nella testa di un bambino chiuso in casa. Io sono, mi sento, quel bambino. E anche se ho l’oggetto magico tra le mani, tenere fermo il corpo elettrico “È un leggero dolore/ che però/ io non so più sopportare.” Come l’aver paura di innamorarsi troppo.
Ai ragazzi va concessa aria e spazio. La loro memoria è preziosa, e deve contenere momenti di liberazione. Non meritano il sacrificio prolungato.
I vecchi sono un altro argomento. Per molti, mio padre uno di loro, l’intera giovinezza è stato un sacrifico prolungato. Ma adesso non ha gli ormoni che scalciano, le amicizie che invocano la strada: mio padre sta bene a casa. Non ha bisogno di correre nei prati. Pur avendo lo sguardo da cagnone anche lui.
Quando passerà tutto questo so che farà rimbalzare il suo bastone fino al bar dell’angolo per bersi un caffè espresso. E con quell’amaro tostato alla lingua si fumerà immediatamente la sua siga, aspirandola come se potesse scappargli.
– Quando pensi che finirà, Maurizio? – mi ha chiesto.
Non lo so. Sono impreparato. Tutti lo siamo.
Sappiamo solo che l’Ro, tasso di contagiosità, deve essere spinto a diventare inferiore di 1. È dentro un’equazione elementare la soluzione di un gran casino.
– Tu ti senti bene? – gli chiedo io. Ogni volta.
È il soggetto ideale, per quella minuscola mina fiorita.
La febbre è la prima cosa. Le pistole alla fronte di questi giorni lo dimostrano. Se hai quella sei out. E mio padre non arriva mai a 36. Bene. Il resto possiamo considerarlo con discreta tranquillità.
Da fumatore incallito di tosse ne ha, e si scatena, tumultuosa e ruvida, quando parla per un po’, o quando si agita.
La spossatezza, anche quella c’è. È però la sua dimensione naturale. Sarebbe un sintomo preoccupante l’adrenalina.
I sapori. Mia madre dice che mangia: mastica lento e inesorabile anche cose mai sopportate, e non si accorge degli ingredienti da lei infiltrati nella ricetta basica: il sospetto che abbia perso un po’ di palato è legittimo.
Resta l’olfatto. L’anosmia, nome impossibile per dire che non senti più gli odori, è un sintomo che può rimanere anche dopo l’infezione. Ma anche qui, non abbiamo mai sentito mio padre accennare a un odore. Mai. Dovessimo considerare solo le sue testimonianze a riguardo, non ha olfatto. Lui stesso è uomo che suda poco e raramente puzza: parola di mia madre, che ha invece il naso assoluto, come il sommo musicista ne ha l’orecchio. Narici da desposta.
A me piace pensare che mio padre riconosca un solo l’odore: quello del mondo che vive. E del quale prima o poi mi rivelerà il sentore.
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