Costume
Cronache dalla quarantena: senza notifiche
I gruppi su whatsapp li tengo senza notifica. Soprattutto in tempi di quarantena, l’assembramento che non può essere fisico si nasconde dietro il pallino verde con nuvola e cornetta. Ultimamente sono stati gli audio, quasi sempre da personale ospedaliero, a coinvolgermi. E quando me n’è arrivato uno ieri da mia madre, che è un singolo ma si nutre di mandrie compulsive di whatsapp, mi sono subito preparato alla testimonianza che mi avrebbe fatto emozionare con dolore, e anche un po’ cagare sotto. La voce di donna, con la giusta ansia, diceva che il virus resta fino a nove giorni sulle scarpe, e quindi sui pavimenti. Lasciate le scarpe fuori! Mettetene sempre e solo un paio! I media non lo dicono per non creare il panico! O mamma! Respiro. Rifletto. Sono anche un giornalista e devo fare analisi, dubitare, e andare alle fonti, via maestra di una notizia. Uno. La voce parlava di generici medici di Milano. Niente può essere generico, in una notizia così esplosiva. Due. Possibile che l’informazione mondiale, per non creare il panico, lascia lievitare la tragedia? Ma faccio di più: digito “nove giorni sulle scarpe cornavirus” e compare subito su una delle pagine dedicate alle bufale sul virus: michiatona su whatsapp. Dedico solo pochi secondi all’odio che mi sale verso i ritardati che se le inventano. Un lampo di tempo in cui desidero averne uno tra le mani e spezzargli il braccio da dietro, dalla spalla, come insegna una qualche arte marziale. Quindi chiamo mia madre, la tranquillizzo, e la invito a rimediare sul suo gruppo. Che domani gliene manderà una nuova, che io dovrò disinnescare.
La piccola più giovane intanto sta discutendo con una prof in videochiamata, perché ha lasciato il libro sotto il banco, ed è ancora là, da prima del tempo del coronavirus.
La grande è in bagno da almeno mezz’ora e ne avrei bisogno anch’io: l’intermezzo bufala mi ha stimolato. Apro timidamente, perché noi non si chiude a chiave nessuna porta, e la vedo piegata sullo smartphone come sullo specchio delle sue brame. Ha l’espressione di chi ha dimenticato di avere il sedere incollato alla tazza. Adesso ho finito, dice finalmente. Poi aggiunge subito: Papo, alle quattro andiamo sul terrazzo a fare gli esercizi? Buona idea. Oggi non cammino come animale in gabbia, ma faccio palestra under the sky.
Tappetino, cronometro, pesi a mano, look in microfibra lei, io casalingo con scarpa fluorescente. Snocciola le serie degli esercizi, tutta da trenta secondi, con nomi inglesi da guerriglia urbana, e si parte.
Un sole fresco, poche nuvole, paesaggio dell’ottimismo. Qualche bandiera appesa ai balconi. In basso, lunghe striscie d’asfalto che si incrociano disabitate. Ma alla seconda ripetizione di un esercizio dove si salta e si piega troppo arriva il risentimento muscolare, il solito polpaccio: a ricordarmi il perché ho smesso di giocare a calcetto da parecchio. Vabbè. Tu vai avanti, amore mio, io mi rimetto a camminare. E vado con il mio profilo ringhiera, che mi fa tanto zen. Lei suda, pompa, con il sottofondo di un rapper americano dal “flow che spacca”. E io torno alle mie telefonate da passeggio. L’amico vive in Spagna e dopo un rapido resoconto della situa, che adesso anche lì segue il nostro spietato mood, ci consigliamo a vicenda film e serie tv. Non ho ancora visto la prima di Narcos? Non puoi, devi assolutamente. Bene, metto in saccoccia. Anche lui sta passeggiando, ma a Tarifa, ha ceduto ed è uscito, diretto alla spiaggia. Deserta. Mi manda una foto. Il profilo della sabbia è sfumato, il vento la tiene effervescente. Si distingue in lontananza la sagoma del Marocco. Io mi accontento di quella dello stadio Meazza. Ci sentiamo in questi giorni, allora. Un abbraccio. Quanti abbracci, ragazzi, che si scrivono, in questi giorni. Il bacio, no, quello è troppo riservato. Bacioni lo ripudio. Da ben prima che diventasse stucchevole marchio social.
Seduti a cena per l’ennesima volta al completo, parliamo, riesco a catturare qualche particolare intimo delle mie figlie, e siamo una famiglia, e insomma, lo metto tra le cose riscoperte, preziose. Perché poi ci sono famiglie che resistono solo perché si incrociano sotto lo stesso tetto per sbaglio o necessità. Stavolta dovranno finire per conoscersi. E la novità costretta potrebbe produrre brutte sorpese. Ma anche bellissime.
Torna prepotente la forza di whatsapp, questa volta per un flash mob che si consuma alle 21: tutti con il cellulare acceso e le luci di casa spente. A illuminare lo stivale per il satellite. Questa l’intenzione. E allora stacco a malincuore il sedere e il polpaccio dolente dal divano, e noi famiglia unita, privilegiati dal terrazzo, saliamo a condividere.
I palazzi hanno le luci intermittenti dell’albero di Natale. Non so il satellite cosa ne pensi, ma da qui è figo. Una voce incalza gridando ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA e un’altra subito la segue. E poi fischi prolungati, quelli di partecipazione, che fanno volume. Anche delle OLA, anche se brevi, soffocate. Insomma, come allo stadio. O a festeggiare l’impresa della nazionale. Il calcio non lo puoi seppellire. È un fiume carsico. E io che zoppico un po’, non potrei nemmeno fare due palleggi taumaturgici, in questo momento.
Non so cosa pensare di questo nostro popolo, davvero.
E torno a sedermi sul divano. La grande è al telefono con il fidanzato, ancora sotto le luci della notte italiana in quarantena. La giovane si mette al pianoforte e canta ‘La costruzione di un amore’, perché sa che mi piace tanto, troppo. Ma questa volta non mi commuovo. Lo giuro.
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