Clima

Corsa all’ultimo pesce in un Mediterraneo sempre più vuoto

30 Settembre 2020

VENEZIA – Il Mar Mediterraneo, che per millenni ha nutrito con il suo pesce popoli e civiltà, è sempre più vuoto. Colpito da una sovrapesca che sta arrecando danni gravissimi alla sua biodiversità. Certo, il Mediterraneo non è mai stato particolarmente pescoso, e come scriveva il grande storico francese Fernand Braudel oltre mezzo secolo fa, le genti mediterranee hanno sempre dovuto associare “le magre risorse della terra alle magre risorse dell’acqua”. Ma la situazione ormai è quasi irreparabile. E un mare brulicante di vita ancora ai tempi dei nostri nonni rischia di trasformarsi in un deserto azzurro, ancora più vuoto dei deserti di terra che, come ricordava sempre Braudel, lo cingono da est, da sud e da ovest.

«Il Mediterraneo di un secolo fa ormai non esiste più. Sta cambiando sotto i nostro occhi. E basta parlare con qualcuno che fa immersioni da venti o trent’anni per averne una conferma. Chi vive sul mare da qualche decennio può tranquillamente raccontare come una volta bastasse fare una passeggiata sulla spiaggia per imbattersi in una miriade di animaletti e in ogni tipo di conchiglietta, mentre oggi non è più così».

A dirlo è Domitilla Senni, portavoce di MedReAct, organizzazione che si occupa di tutela del Mediterraneo, della biodiversità e del recupero di ecosistemi e stock ittici. «Il Mediterraneo è un tesoro di biodiversità. Biodiversità che purtroppo stiamo perdendo. Le cause sono diverse. C’entra la crisi climatica, naturalmente, che nel Mediterraneo è avvertita più che in altre parti del globo. Ma soprattutto c’entra la gestione della pesca, tale da far sì che questo mare risulti, secondo i dati FAO, il più sovrasfruttato al mondo».

Per molte specie ittiche di rilievo commerciale, nota Senni, «è assolutamente corretto definire il Mediterraneo un mare depauperato. E le conseguenze del sovrasfruttamento di tali specie si avvertono su tutta la catena alimentare. Ci sono tante specie che non sono un obiettivo della pesca, come gli squali o le tartarughe, ma che vengono comunque catturate».

© Oceana/Juan Cuetos

Franco Andaloro è dirigente di ricerca e direttore della sede siciliana della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli. Il suo obiettivo è «ripensare la pesca nella nuova era, l’antropocene». Andaloro sottolinea che per alcune specie ittiche di particolare pregio commerciale si arrivi a uno sfruttamento del 90%. «A differenza di un tempo, quando erano i pescatori a determinare il mercato con le loro catture, oggi è il mercato a determinare ciò che fa il pescatore. Il mercato richiede certe specie, e paga per quelle. Ciò avviene dalla grande distribuzione alle piccole pescherie».

L’epoca in cui la massaia o il cuoco andavano al mercato del pesce e per il pranzo di venerdì compravano “ciò che dava il mare” è ormai lontana. Esotica come certe immagini in bianco e nero dell’Istituto Luce della pesca del tonno “nelle ricche acque di Favignana” (“Laboriosa lotta di braccia e di maglie robuste, contro il guizzare impetuoso dei grossi pesci, coronata però da un’abbondantissima retata…” scandisce la voce a commento).

Spiega Andaloro: «Mezzo secolo fa si consumavano in Italia circa 140 specie di pesce, mentre oggi di specie del Mediterraneo se ne consumano una quarantina, e l’80% del consumo si concentra su una dozzina di esse». Si tratta prevalentemente di specie demersali, cioè di fondale, «come naselli, triglie, spigole e seppie, catturate con la pesca a strascico, oppure dei grandi pesci pelagici come il tonno e il pesce spada».

«Il Mediterraneo è il mare con più sovrapesca del mondo»

«Deprimenti». Così Javier López definisce le attuali condizioni del Mediterraneo per quanto riguarda biodiversità e salute dell’ecosistema. Da Madrid, dove è il direttore della campagna per la pesca sostenibile di Oceana in Europa, López dice: «il Mediterraneo è un autentico tesoro in termini di biodiversità, però sfortunatamente non stiamo facendo abbastanza per preservarlo per le prossime generazioni. È il mare con più sovrapesca del mondo, i dati della FAO sono molto chiari. È anche uno dei mari più inquinati, con una concentrazione record di microplastiche. Più del 40% dei mammiferi marini sono scomparsi».

Oceana è la maggiore organizzazione internazionale di advocacy dedicata esclusivamente alla conservazione degli oceani, ed è attiva in Europa, in Nord America e in altri paesi, dal Belize alle Filippine. «Al momento in tutto il Mediterraneo si pescano circa 800.000 tonnellate di pesce all’anno, un livello di prelievo davvero insostenibile – osserva López –. Potrebbe essere sostenibile solo se dessimo alle risorse ittiche il tempo di recuperare livelli salutari».

Di certo non aiutano alla ricostituzione degli stock ittici certe abitudini alimentari ancora assai diffuse nei paesi mediterranei. Giuseppe è un pensionato siciliano che vive in Italia del nord; quando torna nella sua città natale, sua sorella gli prepara sempre le “polpette di mucco”, fatte con il novellame del pesce azzurro. «So che non sono molto rispettose del mare, ma sono così buone… – confessa –. Mi ricordano la mia infanzia e la mia adolescenza, quando mia nonna me le preparava a iosa».

«La Spagna, come l’Italia del resto, è tra i campioni quanto a consumo di pesce sotto taglia per abitante – conferma López –. In Italia ne consumate intorno ai 30-31 chili l’anno, qui in Spagna sui 45». Ma le sfide che il Mediterraneo deve superare per assicurare la sopravvivenza della sua biodiversità sono… una marea. A cominciare dall’impatto della pesca illegale. In Italia come in altri paesi mediterranei il legislatore ha varato normative severe per proteggere gli ecosistemi e la biodiversità di quello che i romani chiamavano mare nostrum, ma un conto è scrivere e approvare una legge, un altro implementarne l’esecuzione. Il già citato novellame, per esempio, è oggetto di una particolare tutela, ma questo non impedisce periodicamente a Giuseppe di gustare le “polpette di mucco” che sua sorella gli prepara.

© Oceana/Juan Cuetos

«La pesca illegale è una piaga di cui non riusciamo a liberarci – osserva Senni –. C’è poca propensione per il rispetto delle regole, e c’è una mancanza di controlli. E anche quando i controlli vengono fatti bene, non vengono effettuati con la continuità necessaria. Sto parlando soprattutto della situazione italiana: i controlli andrebbero fatti dodici mesi l’anno, e non nel corso di operazioni della durata di qualche settimana. Occorre un’attenzione molto alta».

La pesca illegale ha tante facce. È, per esempio, quella senza controlli dei pescherecci con una bandiera di comodo. O è quella con attrezzature vietate. «Pensiamo alle reti derivanti per pesce spada, che continuano a essere utilizzate nonostante i grandi sforzi messi in campo – dice Andaloro –. O ancora, all’uso di maglie non regolamentari». Senza dimenticare il bracconaggio, effettuato da pescatori non professionisti con attrezzature professionali, che va a scapito della piccola pesca artigianale.

Un conto è scrivere e approvare una legge, un altro implementarne l’esecuzione

“Pescare responsabilmente” è il mantra che Senni ripete nel corso dell’intervista. Che ricorda come possano far danni sia le piccole che le grandi imbarcazioni, «usando attrezzature vietate, pescando in zone vietate, catturando specie vietate e così via». L’Italia, ovviamente, è in prima linea, non soltanto perché si trova al centro del Mediterraneo, ma perché la sua flotta è una delle maggiori di questo mare, sia rispetto a quelle degli altri paesi europei, sia rispetto alle flotte di paesi terzi.

Naturalmente anche le dimensioni contano, e bisogna ricordare che la piccola pesca, quella artigianale che ancora si pratica soprattutto nei centri minori della costa mediterranea, ha oggettivamente un minor cumulo di colpe. Brian O’ Riordan è segretario esecutivo di LIFE Platform, che riunisce 31 associazioni da 15 stati membri dell’Unione Europea, e rappresenta circa 10mila pescatori. E sottolinea che i piccoli pescherecci, quelli sotto i 12 metri di lunghezza, rappresentano circa il 5% di tutto il volume di pesce pescato nelle acque della UE.

«I piccoli pescherecci, in ogni caso, rappresentano tra il 70% e l’80% della somma totale di imbarcazioni individuali – aggiunge O’ Riordan –. Quindi il loro impatto, per quanto concerne la sovrapesca, è relativamente piccolo se paragonato alla pesca su scala più grande. Essi però tendono a essere maggiormente colpiti dall’impoverimento del mar Mediterraneo rispetto ai pescherecci più grandi e industriali, che hanno una mobilità superiore e sono in grado di pescare con più intensità».

Un Mediterraneo meno pescoso non comporta solo immensi danni ecologici e biologici, ma ha effetti devastanti anche sulle economie locali più orientate alla pesca, sui pescatori e sulle loro famiglie. Di fronte a un broeto di pesce e un bicchiere di bianco, un pescatore di Chioggia che preferisce restare anonimo, racconta: «Siamo pescatori da generazioni. Rispetto al mare che ha conosciuto mio nonno, e anche mio padre, questo è un mare del tutto diverso. Non è il mare di quand’ero ragazzino, neanche un po’. Io sono vecchio ormai, e sono contento che mio figlio abbia scelto un altro mestiere. La pesca per lui è solo un hobby».

Di pescatori anziani che gettano la spugna, che assistono al tramonto dell’attività di famiglia, le coste del Mediterraneo sono piene, dall’Egeo al Mare delle Baleari, passando per il Tirreno e l’Adriatico. Così si estinguono conoscenze e competenze, tradizioni, lessici e ricette che hanno contribuito a costruire la storia dei popoli mediterranei, e in definitiva l’identità europea. Una pesca attenta ai luoghi, alle stagioni e ai cicli di vita dei pesci, e geneticamente orientata alla sostenibilità, scompare, quasi di sicuro per sempre. Giacimenti antichi di saperi, preziosi anche per il futuro, cessano di esistere.

Un Mediterraneo meno pescoso ha effetti devastanti anche sulle economie locali

Dice Senni: «I pescatori soffrono, soprattutto quelli più piccoli, perché chi ha un peschereccio grosso può andare più lontano e gestire meglio sul mercato i propri prodotti. E c’è sempre una tensione altissima a livello locale fra chi pratica la piccola pesca artigianale, e chi invece usa lo strascico, entra nelle zone sotto costa, porta via le reti… questo accade perché gli stock ittici stanno diminuendo. È quasi una corsa all’ultimo pesce».

Parlando con gli esperti e con chi ogni giorno va in mare a pescare, si arriva a una conclusione: occorre fare di più per proteggere il Mediterraneo dalla sovrapesca. Deve fare di più l’Italia, devono fare di più gli altri stati rivieraschi, deve fare di più la UE. Come spiega Frédéric Le Manach, direttore scientifico della Bloom Association, fondata nel 2005 a Parigi, Bruxelles dovrebbe rivedere profondamente la sua politica di sussidi all’industria della pesca. «I sussidi pubblici possono essere dannosi per il Mediterraneo. E in effetti molti di essi sono stati, sono e continueranno a essere dannosi. Infatti se tali sussidi comportano una riduzione dei costi di pesca, hanno come risultato un aumento della pressione collegata alla pesca. Queste sono le basi dell’economia, si può riscontrare tale fenomeno in tutto il mondo. Ecco perché le Nazioni Unite, nel 2015, hanno chiesto di vietare tutti i sussidi dannosi entro il 2020, come parte degli Obiettivi di sviluppo sostenibile».

© Oceana/Rafael Fernández Esteban

Nocivi anche i sussidi per la costruzione di nuovi pescherecci (proibiti nel 2004, ma destinati probabilmente a riapparire col prossimo European Maritime and Fisheries Fund, ammonisce l’esperto francese). E quelli per l’acquisto di attrezzature più efficaci. Le Manach menziona come esempio le sciabiche danesi (Danish seines), particolare tipo di rete ancora poco diffuso nel Mediterraneo.

Bruxelles dovrebbe rivedere profondamente la sua politica di sussidi all’industria della pesca

Dal canto suo López, parlando dei pescherecci che fanno la pesca a strascico (responsabile, a suo dire, di un quinto delle catture), ricorda che tali imbarcazioni «hanno un maggior impatto ambientale rispetto a quelle più piccole, e consumano più carburante. In termini di performance economica inoltre, alcuni studi dicono che se non fosse per i sussidi pubblici, non sarebbero neanche redditizie».

Per rendere la pesca mediterranea più sostenibile si deve guardare a nordovest. Per esempio alle fredde ma pescosissime acque islandesi. L’Islanda deve alla pesca una fetta rilevante della sua prosperità, e quindi ha tutto l’interesse che l’industria sia sostenibile nel medio-lungo periodo. Ecco perché Reykjavík, negli ultimi tre decenni, ha varato una legislazione rigorosa, con normative piuttosto stringenti anche per quanto riguarda la pesca a strascico.

Ed è anche merito di Bruxelles se le cose stanno migliorando nelle acque europee dell’Atlantico, oceano che negli ultimi quattro secoli è stato decisivo per sfamare centinaia di milioni di europei (e americani) con i suoi merluzzi, le sue aringhe e i suoi halibut. Nota López: «Quindici anni fa la situazione nell’Atlantico era assai simile a quella del Mediterraneo, ma grazie all’assunzione da parte degli stati membri dell’impegno di ridurre la sovrapesca entro il 2020, si è passati dall’80% di sovrapesca al 35%».

Ancora, bisogna rafforzare la cooperazione con i paesi rivieraschi non-europei, soprattutto quelli in condizioni di maggior difficoltà economica e geopolitica. È essenziale proteggere gli ecosistemi più vulnerabili, e gli habitat dove i pesci si sviluppano o si riproducono. Racconta Senni: «tre anni fa siamo riusciti a far chiudere alla pesca demersale, come strascico e palangari, una zona importantissima dell’Adriatico, la Fossa di Pomo, dove peraltro erano attivi parecchi pescherecci italiani e croati. I controlli ci sono stati e ci sono, e in due anni e mezzo quest’area si sta ripopolando a una velocità incredibile: è veramente meraviglioso».

«I consumatori sono l’ultimo e più forte baluardo contro l’illegalità»

Ma non solo soltanto le istituzioni e le ong a doversi muovere. Anche i cittadini devono fare la loro parte, sia nella veste di elettori che di consumatori. «Abbiamo bisogno di consumatori informati. Immaginiamo un consumatore che rifiuta il pesce sottotaglia. O che non compra il novellame di sardina e di acciuga, o che declina la fritturina del golfo con le trigliole da cinque centimetri. I consumatori sono l’ultimo e più forte baluardo contro l’illegalità» nota Andaloro.

Al mercato, anziché comprare il solito trancio di tonno o di pesce spada, sarebbe bene optare per il pesce di una delle “specie dimenticate”, come le chiama Andaloro. Pesce che le nostre nonne e bisnonne cucinavano con straordinaria perizia, e che oggi è scomparso da molti menù casalinghi, ma che abbonda (relativamente) nelle acque mediterranee, dato che le specie più pescate sono altre. «Una scelta che peraltro aprirebbe anche straordinari scenari gastronomici» chiosa Andaloro.

Concorda O’ Riordan: «I consumatori possono giocare un ruolo di rilievo seguendo i principi base di selezionare pesce pescato localmente, nella stagione corretta, con attrezzature a basso impatto, e pagando il prezzo giusto per esso». Forse in questo modo anche i nostri figli, e i figli dei nostri figli, avranno la possibilità di gustarsi una buona pasta alla scoglio o una bella frittura, nel 2060.

 

Scrivere quest’articolo sarebbe stato impossibile senza le testimonianze e le analisi di decine di scienziati, attivisti coraggiosi, piccoli imprenditori della pesca e “semplici” cittadini. Si ringrazia anche Gabriele Catania per l’approfondita conversazione sulla storia del Mediterraneo e sul pensiero di Braudel, e per le dritte sull’industria della pesca in Italia e in Scandinavia.

 

Immagine in copertina: Pixabay

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