Costume
Corpi in scatola
Bambini e adolescenti da mesi vivono isolati dai loro coetanei, ora che possono cominciare a riprendere un minimo di socialità devono comunque stare attenti, prendere precauzioni, in sostanza non possono vivere con immediatezza, naturalezza e slancio le occasioni di RELAZIONE. E questo non è senza effetto. E non solo nell’immediato: tenerci distanti, frenarsi nella voglia di stringerci la mano, di abbracciarci, sono schemi comportamentali che scavano tracce sulla pelle, scrivono percorsi nel corpo. Modificano la percezione che abbiamo del nostro corpo e del corpo dell’altro, rendono più spessi i confini tra le persone. Questo vale per tutti quanti noi, figuriamoci per i più piccoli.
La pandemia ci mette davanti alla nuda relazione, senza filtri, ci interroga profondamente sul valore, sul senso che le assegniamo, ci sollecita a capire come praticarla ora, senza caricaturarla.
A botta di decreti provvedimenti e regole per contrastare il Covid-19, viene ridisegnato il nostro quotidiano, il nostro modo di essere cittadini, gruppi, comunità, ma dentro quale visione prospettica? Non vedo scenari che segnano discontinuità con il passato, che inseguono quel cambiamento epocale che era stato ‘profetizzato’ nei giorni del confinamento, dei bollettini quotidiani, delle conferenze stampa delle ore diciotto. Checché ne dica la tanta retorica che viene iniettata a fiotti in ogni occasione pubblica e in molti, tanti spot, da quelli commerciali a quelli istituzionali (di cosiddetta ‘pubblicità progresso’), sul nostro aver imparato a vivere in modo diverso, sull’essere tutti felicemente smart, sulla nostra ‘eroicità’ di ripensarci.
Prendiamo un aspetto su tutti, quello centrale, ossia come viene invocata e perseguita la nostra SICUREZZA. Sicurezza e relazione sono le parole che oggi più che mai vengono messe sotto tensione riguardo al loro senso e quindi alla performatività che esprimono sulle nostre vite. E paradossalmente sono anche quelle altrettanto buttate lì nella comunicazione istituzionale e nello pseudo-dibattito pubblico, date per scontate, come se fossero ovvie, già chiare e assodate nel loro valore, come se fosse ovvio il rapporto che le lega.
La parola sicurezza viene iper-pronunciata in tutti i discorsi, ma mai declinata veramente in contenuti chiari ed espliciti, sì da poter essere discussa, messa in questione, problematizzata democraticamente al fine di condividerne confini, contenuti e obiettivi e potervi così aderire consapevolmente, valutando costi e benefici: in che senso sicurezza? in che cosa si sostanzia concretamente nel vivere sociale di tutti i giorni? E’ identificabile semplicemente nel non contrarre il virus? Con quali costi? Riduzione del rischio a scapito di cosa?
A me pare che tutto questo non sia sufficientemente fatto oggetto di confronto, discussione, per costruire un senso condiviso da attribuire alla parola sicurezza, un senso che possiamo ritenere accettabile e sostenibile, in cui possiamo riconoscerci tutti quanti per interpretarlo in modo attivo e responsabile; mi pare che venga presupposta un’adesione a priori al senso della parola sicurezza, che essa venga anzi invocata in funzione anti-dialogo, anti-confronto. Come dire: c’è la sicurezza di mezzo, non si può obiettare a questo provvedimento! c’è la sicurezza di mezzo, non si può disobbedire a questa restrizione! c’è la sicurezza di mezzo non puoi non essere d’accordo!
Ma non è così che può funzionare. C’è sicurezza e sicurezza, non esiste una sicurezza in astratto, in valore assoluto, a cui tutto può essere sacrificato, a prescindere da qualunque implicazione, da qualunque costo e a qualunque costo.
Il senso, non dichiarato e messo sul piatto, ma che viene agito di fatto è in antagonismo alla relazione e questo è molto pericoloso.
A me fanno paura quei messaggi che sottotraccia demonizzano la relazione, instillano la paura verso l’altro in nome della sicurezza.
Perché allora il lockdown non è finito per nulla. Il lockdown sta ancora continuando. Il lockdown ce lo portiamo dentro.
E poi arriva la genialata della Ministra Azzolina: separé di plexiglass tra banco e banco per riaprire le scuole in sicurezza! Non solo inculchiamo in ragazzini la fobia per la vicinanza, la prossimità, il contatto, addirittura li rinchiudiamo in una teca trasparente e pretendiamo di far loro vivere così la scuola.
Le scuole, soprattutto quelle dell’obbligo, debbono riaprire il prima possibile per una ragione prioritaria: far ritornare i bambini e i ragazzi a stare insieme. In una società come la nostra in cui sempre più le famiglie si chiudono dietro le loro porte di casa e tutta la loro socialità interna rimane una questione esclusivamente privata, privatissima, con tutte le degenerazioni che possono derivare dalla scarsa permeabilità allo scambio di quel nucleo con il mondo fuori, tutte le sue differenze, i suoi numerosi punti di vista, la varia umanità di cui siamo parte, ecco che la Scuola se ha senso è proprio nell’essere un ponte tra quell’interno troppo privato e il resto del mondo, un momento di con-tatto con gli altri, con porzioni di realtà che altrimenti rimarrebbero escluse. La Scuola ha senso se è luogo di commistione, di ibridazione delle provenienze culturali, sociali ed economiche, se è luogo di mobilità e scambio tra i ‘livelli’ della società, se è spazio in cui le carte si rimescolano e si vive una prossimità fondata sul riconoscimento reciproco e non già sull’aprioristico e familista dato di sangue. Specie poi se ciò che rimane chiuso dietro quelle porte non è da scenetta ‘mulino bianco’. La scuola pubblica ha senso se integra e potenzia il paesaggio umano, relazionale e culturale innanzitutto e proprio di quei bambini e quegli adolescenti che non ce l’hanno, che non lo ereditano dal patrimonio di famiglia.
L’emergenza sanitaria ha evidenziato tutti i limiti strutturali ed infrastrutturali della Scuola, annosi e cronici, palesandoli con ancora più forza ed evidenza: edilizia scolastica, spazi di lavoro, attrezzature, equipaggiamenti tecnologici, che ordinariamente dovrebbero accompagnare e supportare le attività educative e formative, sono carenti – a volte inesistenti – e costringono già in situazioni normali ad un’azione sacrificata, arrangiata, quando addirittura rinunciataria.
Semmai allora la riapertura delle scuole dovrebbe essere nel segno di un rilancio, un’occasione per affrontare le criticità e farne veramente un laboratorio di relazione, in cui si fa pratica di convivenza democratica, in cui si impara a stare insieme, a rispettare l’altro per ciò che è, a smontare stereotipi e pregiudizi, ad aprire la mente all’inedito, alla scoperta, alla sorpresa. Adesso più che mai, proprio dentro la sfida che il rischio di contagio ci pone davanti, rispetto a cui non si può rispondere con la chiusura difensivistica, ma rilanciando in positivo.
La relazione è condizione necessaria, noi esseri umani possiamo essere solo nella relazione, attraverso la relazione e dobbiamo fare di tutto per salvaguardarla, per renderla praticabile comunque, facendo uno sforzo creativo di ripensamento generale del nostro modo di vivere quotidiano, delle nostre città, delle nostre pratiche di produzione e consumo, del lavoro e del tempo libero, mettendo in quella valutazione costi-benefici della sicurezza anche il rischio sociale derivante dalla deprivazione relazionale.
[Ph: CarloElmiroBevilacqua]
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