Costume
Contenti di fare la fila
Faccio la spesa per i miei. La lista scritta da mia madre non lascia scampo all’errore. In molti casi c’è il colore della scatola, barattolo, lattina o sacchetto che sia. In alcuni anche il prezzo al centesimo. E poi gli aggettivi. Le banane piccole e verdi. Le fettine di tacchino sottilissime. Le melanzane luccicanti o niente. Quando c’è anche il nome della marca, magari “straniera”, non è mai scritto esatto, ma lo intuisco per assonanza.
È un foglio a quadretti strappato da un qualche antico quaderno, scritto con una grafia corsiva che insegue lo stampatello. Mio padre resta sulla sua sdraio, con quella mascherina che lo fa apparire un condannato al silenzio perpetuo; l’hanno indossata entrambi per il mio arrivo. Lei invece va avanti e indietro, come per ritrovare qualcosa che potrebbe aver dimenticato. Ma c’è tutto. Prendo le tre buste di plastica e mi passa anche il bancomat, avvolto in un altro minuscolo foglietto sul quale è scritto il numero del pin. Finalmente sono pronto a uscire. Da sopra la mascherina, leggo nel suo sguardo la rinuncia al furore di un contatto fisico. Ma si è imposta le regole.
La fila è infinita. Da dove sono non la vedo nemmeno l’Esselunga dove entrerò con il mio carrello. Ma c’è una sottospecie della serenità. Quella di chi ha accettato la sua condizione. Il tizio davanti a me legge un quotidiano online sullo smartphone. Dietro, una signora parla a bassa voce ma fitto fitto con quella che, per la ruvida confidenza e la solidarietà continuamente ribadita, dev’essere la sorella.
Io smanetto su facebook. In regime casalingo, si è conquistato un posto d’onore. Bastano pochi like, per un sentore di vicinanza, partecipazione. Se di un Mi piace non ricordo la faccia, la vado a vedere sul profilo. E se non è tra i miei amici, chiedo l’amicizia. Chi arriva in fondo mi ha regalato il suo tempo. Senza rischio contagio.
Piccola disgressione del dilettante: ma questi algoritmi, dei quali tutti parlano come se fossero amici di famiglia, cosa pensano? Cosa vogliono? Chi cazzo sono? Io scrivo la mia versione, cercando di stare il più possibile dalle parti del vero. E snocciolo i post offrendo il mio dito alzato allo stesso modo. Quasi mai per pura solidarietà.
Mi guardo il video di un amico milanese cantattore, costretto lontano dai palchi, che fa di casa sua il set di un surreale documentario. Rido, faccio un paio di metri in avanti, commento la mia approvazione. Quindi leggo un whatsapp di mia madre. C’è un aggiunta: quelle crescenze piccole e bianche. Penso a quel suo sguardo dietro la museruola mentre le rispondo Ok, e le allego un articolo che mi è stato girato come commento da un’amica. So che le piacerà. Una studentessa e una madre del Kentucky (paese che per me significa solo Bourbon e Muhammad Alì) stanno cucendo insieme pezzi di lenzuola e di plastica trasparente per farne mascherine che lasciano scoperte le labbra. In modo che i sordi possano leggerne il movimento, quel bacio irrequieto e instancabile del parlare. Ma permette anche alle ‘mai senza rossetto’ come mia madre, di mantenere lo stile.
Le restrizioni aprono nuovi scenari. E questa fila ne racconta un altro. Nel paese dove è l’incubo da evitare, o da saltare, decine di persone se ne stanno lì, con passo da lumaca, senza un lamento, e una bava.
E pure contenti. Seppelliti in casa, in lotta contro il tempo morto, è un momento d’aria aperta. Non molto diverso dal mettersi come una lucertola a prendere il sole.
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