Costume

Apu non deve morire: le possibili derive del politicamente corretto

2 Novembre 2018

Apu, lo storico personaggio dei Simpson, sembra destinato a scomparire. Manca ancora l’ufficialità, ma le accuse di “becero stereotipo razzista” che lo perseguitano da tempo starebbero inducendo autori e produttori, dopo qualche maldestro tentativo di salvataggio in extremis (ad esempio, con una nuova caratterizzazione), a disfarsene alla svelta. Il tutto in virtù del polverone alimentato dall’uscita del documentario “A problem with Apu”, girato dal regista indiano Kondabolu e avente come bersaglio polemico proprio il gestore del Jet Market di Springfield, giudicato, in sintesi, “triste e pericoloso”.

Ora, che la società evolva rapidamente e che le categorie attraverso cui leggerla la seguano a ruota costituiscono senz’altro dei validi motivi per i quali un personaggio ritenuto inoffensivo trent’anni fa possa, all’improvviso, divenire oggetto di una radicale rivalutazione in chiave reazionaria. Il lungo dibattito sul tema “razzismo”, mai impigritosi, soprattutto nei multietnici Stati Uniti, non favorisce l’effetto sorpresa e il borghese-maschio-bianco non pacificato che è in noi tende, d’istinto, a dargli credito.

Tuttavia, la tesi dell’Apu-stereotipo-pericoloso, a una lettura un pizzico più approfondita, presenta implicazioni problematiche su cui vale la pena soffermarsi in questa sede. Implicazioni che emergono sin da subito, basti menzionare un dettaglio non di poco conto: il bistrattato indiano televisivo non rappresenta affatto un’eccezione nell’impianto narrativo dei Simpson.

Italo-americani, ispanici e altri gruppi etnici – per non parlare dei gruppi religiosi – non vantano alcun trattamento di favore, e non certo a causa di un’inquietante, nonché improbabile, par condicio razzista. Pertanto, applicando il leggerino schema vittimistico-censorio suggerito dal documentario fino alle estreme conseguenze si rischia di andare avanti all’infinito nel pescare ritratti ingenerosi, poiché l’approccio satirico-caricaturale proposto da Matt Groening, creatore della longeva serie, non risparmia nessuno.

Valutando, quindi, la vicenda con le dovute integrazioni, risulta davvero difficile sostenere, tra le righe, che i Simpson, alla stregua di altri mediocri sceneggiati obsoleti, raccontino, banalmente, la provincia americana a uso e consumo dei bianchi della middle-class servendosi di un materiale umano stereotipato in grado di confermare, impacchettare e coccolare tutti i peggiori pregiudizi a tinte etnocentriche.

La causticità sembra ben distribuita e le preoccupazioni documentaristiche di “A problem with Apu” in merito alla scarsa rappresentatività etnica o alla sua possibile riduzione macchiettistica, per quanto legittime in linea di principio, forse, dovrebbero misurarsi con le istanze satiriche non negoziabili di cui si nutre il format incriminato, istanze che inevitabilmente comportano il ricorso, in determinate occasioni, alla stilizzazione descrittiva con finalità comiche. In alternativa, per placare ogni automatismo paranoico, bisognerebbe dirottare la serie verso il distopico manuale della caratteriologia politicamente corretta, minandone la cifra, uccidendone la sostanza.

Ma a dirla tutta, le eventuali mutilazioni narrative dei Simpson ci affascinano fino a un certo punto: non stiamo parlando di un personaggio storicamente inevitabile. Il nostro interesse critico-analitico per il destino di Apu dipende, invece, in primo luogo, dal suo assurgere a rappresentazione plastica di alcune energiche, nonché controverse, derive “liberal” affermatesi negli ultimi decenni all’interno del contesto socio-culturale americano, in particolare, nella dimensione accademica.

Derive poggiatesi sul diffondersi del discorso identitario, su un assorbimento disordinato della teoria critica e sfociate in meccanismi inquisitori pronti a bandire dalle aule universitarie e dalle grinfie della tipografia qualsiasi romanzo, articolo, dramma o saggio dall’odore non inclusivo (ovunque sessismo, omofobia, razzismo, altre modalità discriminatorie ancora non messe a fuoco, ecc.).

Un setaccio, spesso arbitrario, che non ha risparmiato neanche alcuni insospettabili, eppure colpevoli, classici, incapaci di sintonizzarsi col metodo “progressista” e di incamerare il sensibilissimo presente: qualcuno, nello stigmatizzare la prassi, si è addirittura espresso in termini di “fascismo liberal”.

Inutile specificare che da queste premesse al recente boicottaggio del dipinto di Balthus – “incitante alla pedofilia” – et similia il passo è breve. E come non rabbrividire nell’immaginare, per iperbole o per gusto apocalittico, un’ipotetica teoria istituzionale dell’arte, alta o bassa che sia, declinata in senso puritano, che concepisca l’espressione artistica come momento di tutela della sensibilità di ogni potenziale fruitore, come forma simbolica dell’inoffensività: ed è noto che il mondo contemporaneo sia carente in tanti aspetti, ma non certo nella vocazione all’offesa…

Insomma, Apu non deve morire.

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