Costume
Antico Sempre Vivo Allarme Italia
Tutto quello che stiamo leggendo in cronaca in questi ultimi giorni – Manduria, Viterbo, il rider bullizzato a Roma – ci restituiscono l’idea di un Paese ammalato di rabbia e prevaricazione sui deboli. Uno scenario antico e vivo, purtroppo, in cui qualcuno rivede tracce di una storia che parte da lontano come se individuare un passato alleggerisse il presente.
Alcune di queste storie portano, infatti, la marca di un colore, di un’apparente ideologia. Ma l’unica cosa vera e meno roboante è che siamo ancora una volta in un allarme sovrastorico che solo per vicinanza richiamiamo all’evento più simile e organizzato nel passato. Alcune nascondono, infatti, in quel colore solo un pensiero di sopraffazione che altre non hanno neppure bisogno di mettere davanti così premurose di trovare nella semplice vessazione l’ideologia sostenuta dalle altre grandi qualità dell’italiano: l’omertà, la paura. Tutta questa storia, tutte queste storie si potrebbero concludere con Ennio Flaiano che prima di altri ha avvertito la necessità di capire il popolo di cui faceva parte come una “minoranza silenziosa”. In “Diario degli errori” non poteva dire meglio quello che tutti stiamo pensando:
Il Fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di cultura, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli “altri” le cause della sua impotenza o sconfitta. Il fascismo è lirico, gerontofobo, teppista se occorre, stupido sempre, ma alacre, plagiatore, manierista.
Più avanti quella citazione così acuisce la prospettiva di un identikit che ci ritroviamo attuale anche fuori da quella presunta ideologia di riferimento che per semplicità richiamiamo a una divisa.
È superstizioso, vuole essere libero di fare quel che gli pare, specialmente se a danno o a fastidio degli altri. Il fascista è disposto a tutto purché gli si conceda che lui è il padrone, il padre.
Purtroppo una citazione non seppellirà tanta bruttura e tanta rabbia che sta provando chi tra noi fa parte con Flaiano di quella minoranza silenziosa che assiste vessato nella vessazione a questa bullizzazione e al clima di impunità in cui viene perpetrata. Ci si domanda se sia quasi peggio questa non organizzazione e se, in fondo, non sia proprio questo a fare più male. L’assenza delle famiglie, la presenza talvolta “collusa” delle stesse, la debolezza di altre “agenzie civiche”, il clima sociale tollerante in ragione di un presunto bisogno di protezione. L’aria che hanno respirato questi atti criminalità in questa collusione alleggerita magari dal “ragazzate” dei tolleranti, dalla grammatica sciatta di qualche politico che sdogana questi presunti atti difensivi – difensivi di cosa? Di una razza (c’è, ci sono razze?), di una società idealizzata in un passato apparentemente felice perché deproblematizzato, un luogo con poco passato e ancor meno futuro, in cui le donne erano a casa e chi arrivava era ospite scomodo?
“Mio padre aveva visto l’universo nell’etichetta di una bottiglia di Jack Daniel’s” è una frase che viene da “L’età straniera” (Marsilio) di Marina Mander che mi è tornata a mente come un cortocircuito. Quello della Mander è un libro che racconta tanto disagio come un luogo dove chi sta male in definitiva sta bene e viceversa. Dove la speranza è fuori di noi e ci annulla in un dolore, un vizio, un troppo debole desiderio. Quello della scrittrice triestina è un libro che aiuta a capire questo contesto in cui l’odio si perpetua a fianco dell’accoglienza in un difficile processo di sintesi in cui a contrapporsi non sono due partiti – come piace pensare a qualcuno – ma due atteggiamenti universali verso la vita. E che fa pensare che, in fondo, l’Italia è un solo paese che non riesce a fare sintesi, delle sue regioni, classi sociali, parti e partigianerie, etnie e religioni, faticando a riconoscere l’universalità di alcuni temi. Non ha abbastanza elementi neutri per cercare un denominatore comune e così vive di strappi e rimozioni. E, come nel romanzo della Mander solo il sonniloquismo, la parasonnia, il sonnambulismo, il bruxismo fanno da spie a tante cancellazioni. Il grande corpo “Italia” mostra quel che non riesce a essere in questi automatismi notturni.
Anche il discorso politico avanza per insulti, rimozioni, criptocitazioni sciatte di un’epoca d’oro, contrapposizioni – espresse o meno – come nei rapporti tra Margherita, la mamma, Leo, il figlio, Florin, il ragazzo di vita che la madre vuole “adottare” forse per riparare delle sue mancanze e il tassista che ha sostituito il padre nel talamo nel romanzo “L’età straniera”. A essere straniero – nell’etimologia originaria di esterno, estraneo – è il luogo oltre che il tempo. Così finiamo per vivere in una terra che non sentiamo nostra e lo dimostra spesso lo stato di poca attenzione che riserviamo alle nostre città, alle nostre bellezze, allo scarso senso di comunità di cui ha bisogno un luogo per essere altro che uno spazio geometrico per quanto ben definito da confini. Se sentissimo come nostro il luogo – il luogo e chi ne fa parte con le regole dell’esserne parte – non sentiremmo il bisogno di estraneare qualcuno o qualcosa, finendo per estranearcene, diventandone stranieri anche noi. E questa è la cosa più allarmante. Davvero.
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