Costume

Affabulazione, arma letale

19 Novembre 2020

 

La mitopoiesi, l’arte di raccontare favole, che successivamente si trasformano in mito, è ciò che ha sempre caratterizzato la cultura dominante delle varie civiltà e la loro espansione nei secoli. L’hanno fatto le religioni, l’ha fatto la politica, l’ha fatto l’economia. Per realizzare tutto ciò al meglio la cosa più importante è sempre stata la comunicazione. Ovviamente l’immagine e tutto ciò che l’icona veicolava aveva il suo ruolo principale per formare una mitologia e il potere lo sapeva bene. Le storie degli dèi sulle metope dei templi greci o le complicatissime vicende delle divinità orientali, che spesso si mescolavano tra loro, nelle decorazioni dei templi, avevano bisogno di un apparato iconografico oltre a dei “libri sacri” veri e propri, anche perché la lettura e la scrittura erano appannaggio di poche persone, all’epoca. Non parliamo poi della Bibbia e del Corano, secondo i cui seguaci ortodossi dell’una e dell’altro tutti gli altri libri non servirebbero a niente: le loro mitologie sono quelle vere e basta. Verrebbe da dire che anche oggi, pur se molte persone sanno firmare, in realtà è come se non sapessero leggere e scrivere. E questo non nel lontano villaggio dell’Amazzonia dove la scrittura manco sanno cos’è, ma sulle sponde del Mare Nostro, il centro storico della nostra civiltà. Quest’aspetto dell’analfabetismo è una qualità di quel pubblico che l’affabulazione seduce; ma lo vedremo tra poco.

Ciò che era importante nell’antichità per impressionare un auditorio era dunque l’immagine, anche raccontata dall’indovino cieco o dall’eroe naufrago ai Feaci. Certo, i Greci scrissero molto, e per fortuna molte cose sono giunte fino a noi facendoci comprendere quanto la radice di tutto, almeno per noi, sia nel loro pensiero. Così le immagini raccontate nelle tragedie da aedi, da cori o da messaggeri, diventavano concrete, comprensibili a un pubblico millenni prima che esistessero la tv o i quotidiani. E chissà quante cose ci siamo persi nei vari incendi dell’immenso archivio di Alessandria d’Egitto, e chissà quante altre sono state censurate, distrutte o metamorfosate in qualcosa di più potabile, dal loro punto di vista, dai cristiani e dai loro scrivani. O da altre culture che dovevano realizzare la damnatio memoriae del vicino detestato, per pianificazione eugenetica o puro scopo rapace. Per fortuna, oltre agli scritti di poeti, tragediografi e filosofi ci sono rimaste anche le immagini delle sculture, dei bassorilievi, dei vasi istoriati, in modo che si è potuta ricostruire la mitologia classica.

I mosaici sterminati del Duomo di Monreale sono la perfetta trascrizione in immagini del Vecchio e del Nuovo Testamento per chi leggere non sapeva, in modo da informare i fedeli analfabeti che tutto iniziava da un peccato originale per poi finire coll’Apocalisse. Certo, c’erano anche le scritte in greco e latino per i più colti, ma andarsele a leggere lì in alto, in quei bei caratteri arabescati, magari essendo pure miopi e senza l’ausilio di lenti adatte, era riservato a pochi. Il mosaico di una superbasilica era più efficace.

Anche oggi, l’Era dell’Immagine, l’icona è il mezzo fondamentale che serve a comunicare ai più impressionabili l’oggetto di ciò che un potere, o una categoria di persone anche non necessariamente potente ma che ambirebbe a diventarlo, o un produttore di qualche cosa, che sia la più utile o la più inutile del mondo non importa, vuole trasmettere per adescare i possibili clienti o seguaci.
L’immagine è il primo impatto. Poi viene lo slogan. Lo slogan può anche essere grafico. L’accoppiamento di immagine e slogan è la tecnica più facile per affabulare, per fornire al pubblico in ascolto una narrazione semplice, uno storytelling si dice oggi, perché l’inglese è di moda e allora bisogna usarlo sempre perché fa chic, fa istruito, fa moderno. Mi fa così strano (e mi dà disgusto) sentire coronavairus, plas (plus…), gianior (junior!). Ma così è.

Internet, inglese e impresa erano, d’altro canto, le tre “i”, una delle tante affabulazioni dell’ex-Cavaliere, il massimo rivoluzionario a cavallo tra due secoli in questo paese, viste le miserie senza splendori di tutti quelli che lo hanno sorpassato negli anni. Erano eleganti perfino le sue cene colla pasta tricolore e burlescaggini (o berluscaggini) da commedia dell’arte, perbacco. Personaggio di una telenovela grottesca, proprio per la sua insindacabile abilità nell’affabulazione, si staglia come una supergigante azzurra rispetto alle nane bianche che oggi si aggirano fioche e che si spengono diventando nane nere. O restando anche nane (assolutamente non riferito alla reale statura per non incorrere in ciò che viene oggi chiamato body shaming, ossia la derisione dell’aspetto fisico, ma alla statura politica, ossia il nulla; però, chissà perché, body shaming, in inglese, sembra più presentabile) nere, nerissime come le Sorelle d’Italia. Perfino Calimero, alla fine, ascoltando la preziosa esortazione dell’olandesina riuscì a trovare una soluzione per togliersi il nero di dosso tramite un passaggio con Ava come lava. Quelle lì no. Manco la candeggina Ace, meno che mai gentile.

Ma andiamo avanti…
Immagine più slogan, dicevamo. Eccolo lì, il Capitano che mangia le specialità tipiche regionali (ormai non più viste le restrizioni di movimento e le piazze e le fiere negate), magari con la sua felpa o maglietta, a seconda della stagione, con priorità tutte italiane esibite per veicolare un’identità che, francamente, non era messa in dubbio se non dalla sua affabulazione: Prima gli Italiani. Prima gli Italiani a fare che? Ammuina? La pizza? Il risotto alla milanese? No, prima gli Italiani a essere abbindolati. Da lui, ça va sans dire. Slogan e immagine, come pure il sempreverde rosario, agitato in maniera apotropaica per scongiurare, vista la scomparsa di padre Amorth, il più grande e temuto esorcista, qualche indemoniamento da parte di Asmodeo e qualche altro demone dispettoso, sicuramente passeggero di un barcone.

Immagini e catastrofi, altre affabulazioni per veicolare messaggi di varia entità. Per esempio un attentato, un terremoto, uno tsunami, un’epidemia.
L’11 settembre è stato, come diceva provocatoriamente il compositore Karlheinz Stockhausen, buonanima anche se la sua musica non sarà ascoltata così di frequente come le sinfonie di Mozart o di Beethoven (e meno male), ein kosmisches Kunstwerk, un’opera d’arte cosmica, il più grande spettacolo mediatico globale. E fu criticatissimo per questa sua affermazione, cinica quanto si vuole, ma assolutamente veritiera. Sui morti non si può speculare, viene detto dalla nostra società bigotta e ipocrita che prima permette la morte delle persone e poi canonizza chiunque, perfino Pio IX, osceno tirannopapa Mastai Ferretti che fece saccheggiare Perugia, rivoltatasi, dalle sue guardie svizzere, moderni lanzichenecchi al suo soldo, le quali uccisero un numero enorme di civili inermi.

I morti. Già, i morti. Quelli delle Torri Gemelle che si buttavano dal trentesimo piano o arrostiti dall’incendio provocato dall’impatto cogli aerei o sepolti dal crollo, quelli dello tsunami in Asia, quelli dei naufragi nel Mediterraneo, meglio se sono bambini da esibire su una spiaggia piena di rottami. Quelli decapitati dall’Isis, quelli del Bataclan o i ragazzi assassinati da Anders Breivik. E quelli delle bare senza nome caricate su camion militari verso regioni confinanti dove avrebbero potuto essere cremati. Resta sempre il dubbio. L’immagine della morte, accoppiata a cifre che servono per quantificare le identità perdute o per delimitarle, fa parte dell’affabulazione e della smania per essa che caratterizza la nostra epoca molto più che nel passato.

È importante dare cifre, anche se non facilmente quantificabili e organizzabili nella mente delle persone. La gente può immaginare tutt’al più poche decine di oggetti o persone e vedersele davanti agli occhi, forse arrivare a immaginare Sheherazade che racconta le sue novelle in mille e una notte, poco più di due anni e mezzo, ma non può realmente mettere in uno spazio visivo decine di migliaia di cadaveri, sia per l’orrore che l’immagine suscita sia per l’impossibilità di concepire proprio un luogo fisico dove situarli. Chi può dare una vera, concreta, dimensione ai milioni di persone che vivono a San Paolo del Brasile o a Parigi, a Tokyo o a Napoli? Numeri sono, ci si fida di chi li scrive o li racconta, ma la dimensione resta immaginata. Così, leggendo quei numeri sui giornali o in strisce che sfrecciano sotto le notizie filtrate e vomitate dal giornalista in tv, lo spettatore viene impressionato esattamente come accadeva anticamente a chi vedesse le rappresentazioni dell’Inferno e di Belzebù nelle cattedrali gotiche o ascoltasse le omelie e i racconti biblici fatti di vendette e di popoli eletti in terre promesse, con sciami di locuste senza fine o invasioni di rane; non enumerate però, si disse solo che erano ovunque, perfino dentro il corpo degli egizi, a gracidare. Colla differenza che le immagini che ci vengono mostrate, seppur sapientemente assemblate e a volte nemmeno corrispondenti cronologicamente (immagini di gente in guerra, ma magari di altre guerre; di sfollati, ma chissà di quale esodo; di naufragi, di tsunami, di catastrofi, ma chissà quali, dove e quando, e così via), danno l’impressione della simultaneità, del tempo reale, e non di un’idealizzazione di un altrove troppo remoto. Le immagini sono lì, in casa, al bar, dovunque ci sia un televisore e sembrano autentiche. Potrebbero anche essere immagini da qualche film con effetti speciali, vai a sapere. Come controllare? 200.000 morti in Asia, nessun turista italiano tra le vittime dello tsunami (e qui, in un primo momento si tira un cinico sospiro di sollievo perché l’identità nazionale esce incolume, ma poi qualche vittima italiana nel numero ci scappa), milioni di contagiati nel mondo, oltre un milione di morti… Ci si fida. E ci si smarrisce.

Meno che mai c’è un approccio critico alle immagini e agli slogan, oggi. L’approccio è quasi esclusivamente emotivo. Qualsiasi sia l’argomento, sia il cambiamento climatico o l’epidemia, siano le continue migrazioni dal sud del Mare Nostro o i mercati cinesi (che poi potrebbero anche essere vietnamiti o thailandesi, ma chi distingue un cinese da un altro asiatico, almeno qui da noi?) dove squarterebbero i topi ancora vivi per mangiarseli crudi col limone o col wasabi, l’approccio è emotivo.
I demagoghi questo lo sanno benissimo. O, se non lo sanno, lo sanno gli staff di addetti alla comunicazione che manovrano come pupazzi quei demagoghi.
E qui torniamo al non semplice racconto della complessità, difficilmente percepibile da masse inconsapevoli che si nutrono di facili slogan senza ragionare. Slogan d’ogni tipo e di qualsiasi parte politica, sia pronunciati da vergini scandinave in difesa di un pianeta che comunque si rigenera sempre, che l’uomo ci sia o no, o da volpeschi politici nostrani degni di stare in Pinocchio, libro fondamentale che racchiude virtù e difetti dell’italica progenie. E, comunque, non solo italica perché lo spettacolo che offrono i vari governi del mondo è di una tristezza che nemmeno il più triste dei racconti di Andersen è così deprimente.

L’affabulazione. Anche e soprattutto durante una catastrofe come la pandemia in corso l’affabulazione è la colonna sonora costante della politica, dell’informazione, dello spettacolo. Non ha importanza se giusta o scorretta, ma diventa la narrazione di una presunta realtà che poi diventa mitologia. Presunta perché nessuno dei comuni mortali è in grado di capire la reale portata dell’epidemia grazie anche alle notizie e immagini false che buontemponi o terroristi dell’informazione diffondono attraverso la rete. Potrebbe essere meglio o addirittura una truffa, come dicono i negazionisti. Ma potrebbe anche essere assai peggio e non viene rivelato per non spaventare i popoli e le economie, perché i soldi sono considerati più importanti della vita umana. E si è visto soprattutto nei paesi protestanti, dove c’è questo atteggiamento patologico verso l’economia, profondamente culturale. Accanto a dati che sono mescolati, oppure messi in secondo piano per privilegiarne altri in modo da far apparire più o meno credibile una realtà piuttosto che un’altra comunque diversa, secondo la necessità del momento, ci sono le interpretazioni dei genî televisivi, gli opinionisti, nani e ballerine, che non hanno la più pallida idea di come si divulghino le ricerche scientifiche (né di cosa siano), ossia attraverso ricerche e pubblicazioni su riviste scientifiche accreditate, bensì utilizzando gli stessi metri e metodi delle dosi di una ricetta o di una statistica di ascolto di canzoni del festival di Sanremo.

Gli influencer, poi, questi bizzarri individui di ultima generazione che determinano oggi le mode unicamente stando su un monitor e non facendo altro di utile nel mondo, se utile può considerarsi esporre la sacralità della propria persona improvvisando balletti sul panfilo sculacciando il proprio harèm di modelle, naturalmente ilari, giulive palmipedi, oppure indossare un foulard e indicare la via dell’eleganza della prossima stagione, sono coloro che attualmente più di altri affabulano colle loro dichiarazioni e narrano il mito di loro stessi e del loro mondo apparentemente condiviso sul profilo e quindi raggiungibile. Mitopoiesi pura autoreferenziale. Nel frattempo il loro conto alle Cayman sale, sale, sale. E il livello culturale e intellettivo del pubblico, scende, scende, scende. Forse anche certi governi che hanno deciso di appoggiarsi agli influencer, magari consigliati da uno staff che vive su instagram o facebook o twitter, scendono.
O si fanno influencer essi stessi, come ha fatto e continua a fare l’ex-presidente trumpato alle ultime elezioni a stelle e strisce. Cinguettare minchiate, accoppiate alla sua icona con ciuffo di color cane che fugge, era la sua specialità, ed ha avuto imitatori e sostenitori, anche tra gli altrettanto mediocri politici di casa nostra, alcuni dei quali hanno esibito perfino una mascherina trumpista! Ma, si sa, la cicala twittò talmente tanto, non risparmiandosi mai, che in inverno si ritrovò senza alcunché mentre la formica aveva la dispensa piena. I cinguettatori d’oltremare avranno un brutto inverno, già funestato da morti e virus, ma continueranno a cinguettare al vento, senza dubbio. Via col vento. Sigla.

Affabulazione. A chi credere?
Si ripropone la solita questione manichea: i buoni e i cattivi, i guelfi e i ghibellini, i sinceri e i bugiardi. Insanabile. In questo gioco vince il più bravo a mentire perché la menzogna che racconta il migliore dei mondi possibili di Matrix è sempre più facile da accettare, in fondo è il sogno americano fatto paradigma. Chi vuole sognare un incubo, d’altro canto? Meglio un sogno irreale, è più facile di fronte alla complessità della realtà. Tranne poi risvegliarsi nell’incubo annunciato ma contro cui non ci si è premuniti lasciandosi ingannare dagli storytelling (ops, l’ho scritto in inglese, pardon!) rassicuranti di guitti su palcoscenici privilegiati come le stanze presidenziali e i parlamenti.

La Ragione sembra non bastare, anche perché spesso la Ragione non abita all’interno dei cervelli di troppe persone. E la Ragione è l’unica arma che può far distinguere la menzogna dalla realtà, o, quanto meno, ciò che ci si avvicina, ma non è neanche detto che arrivi al suo scopo, essendo spesso la manipolazione attraverso le immagini sottile e subdola e, a volte, la Ragione, colei se la rigira come vuole. Ma se la Ragione non basta non ci sono speranze. Quando usciremo dalla pandemia, che esiste, c’è, non è un’invenzione mediatica, e sta mostrando il suo lato devastante, ci servirà moltissima Ragione. Cominciamo a farne provvista fin d’ora, perché ci serve soprattutto adesso.

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