Ambiente

Adolescenti accompagnati in città inquinate: la schizofrenia italiana

27 Ottobre 2017

Ha sollevato grandi polemiche la dichiarazione del ministro Fedeli sulla necessità – da parte delle mamme – di andare a prendere a scuola i figli che frequentano le scuole medie. Un atto di responsabilità ha chiosato la Fedeli circa questa ennesima manifestazione di schizofrenia della politica italiana.

Perché di una cosa siamo certi: in Italia, soprattutto su temi sociali, si può dire tutto e il contrario di tutto.

I ragazzi sono bamboccioni deresponsabilizzati e incapaci di farsi carico del loro futuro? Occorre mandarli a fare esperienze lavorative quanto prima, per il loro percorso formativo, ma soprattutto per farli maturare. A 14 anni in fondo i loro genitori andavano già a lavorare per mantenersi agli studi o supportare la famiglia. Peccato però che fino a 13 anni e 364 giorni debbano essere presi per mano da mamma e papà all’uscita da scuola, altrimenti l’insegnante di turno – non in ministro, attenzione – può finire col mettersi nei guai a norma di legge.

Quindi, ricapitolando, bambini fino a 13 anni e 364 giorni, al 365esimo giorno tutti nei campi a zappare. Si esagera, ma poi neppure tanto. D’altra parte viviamo nello stesso paese in cui, a causa dei picchi inostenibili di inquinamento delle scorse settimane, in pianura Padana sono stati imposti blocchi ai veicoli privati ed è stata messa in atto una massiccia – e doverosa – campagna contro il trasporto privato su gomma. Viene da chiedersi in che modo un genitore, che di norma non lavora a 5 minuti a piedi da casa e, sempre di norma, non decide liberamente quando entrare e uscire dal luogo di lavoro, dovrebbe andare a prelevare i figli – più alti di lui – davanti al cancello della scuola. In bicicletta magari o con i mezzi pubblici.

Viene ancora da chiedersi in quale mondo vivano coloro che ritengono sostenibile una proposta del genere e se queste persone si siano accorte che la maggiornaza della popolazione non si può permettere una “fuga” dall’ufficio tutti i giorni in concomitanza della campanella per fare una piacevole biciclettata per la città con il figlio adolescente. Perché la maggioranza delle persone lavora 8 ore al giorno (se è fra i fortunati detentori di un posto di lavoro) e, sia che si tratti d’orario d’ufficio, sia che si tratti di turni, non può scegliere come gestire il suo tempo.

L’Italia infatti è un paese incredibilmente arretrato in termini di conciliazione fra tempi di lavoro e di cura. Spesso anche chi ha figli piccoli si vede costretto a una scelta: ridimensionare la propria carriera professionale (se se lo può permettere) oppure “arrabattarsi” nella cura dei figli come può. Di frequente con enormi spese e, ancor più di frequente, arrivando alla conclusione che, in fondo, è meglio che qualcuno rinunci a lavorare e stia a casa, perché – in termini economici – costa meno e – in termini pratici – è più semplice. Visto? Problema del ritiro a scuola risolto. Va il genitore casalingo armato di bicicletta o abbonamento del bus.

Se volessimo però essere realistici e affronatare seriamente il problema dello stato di – precaria – salute dell’ecosistema Italia, ci renderemmo conto che siamo bravissimi nel citare modelli di stile di vita stranieri senza renderci assolutamente conto di cosa questi modelli implichino nei rispettivi stati da un punto di vista, prima di tutto, culturale.

In Giappone i bambini delle scuole elementari attraversano interi quartieri a bordo dei mezzi pubblici per andare e tornare da scuola. Salgono in metropolitana, cambiano alle fermate, attraversano strade molto più trafficate di quelle di una nostra media cittadina.

Sono forse precoci o iper evoluti? No, molto banalmente il sistema sociale giapponese permette a un bambino di 6 anni di vivere in sicurezza l’ambiente esterno e attraversare un incrocio trafficato non rappresenta un problema grazie alla responsabilità degli adulti, non tanto alla maturità dei più piccoli. Cultura, educazione, rispetto delle regole e i genitori non vengono accusati di trascuratezza se il bambino si rende indipendente. In Italia la colpevolizzazione sarebbe dietro l’angolo – metaforico – sulla via di ritorno del genitore dal lavoro. Perché un ragazzino di 13 anni va prelevato a scuola, portato a casa e, possibilmente, messo a tavola. Se questo non avviene iniziano a sorgere seri dubbi sulla bontà del modo in cui il genitore svolge il suo ruolo.

Il problema, prima ancora che pratico, è quindi culturale.

Ma torniamo al tema ambientale, tema caldo fino al primo refolo di vento che normalizza per 24 ore la situazione facendoci dimenticare del problema. Tanto prima o poi piove. Dobbiamo tornarci perché, per quanto i temi sembrino distanti, fanno parte dello stesso “sistema Italia”, quello che passa il tempo a rimuovere le pagliuzze dall’occhio mentre le travi gli cadono in testa. Ci stiamo intossicando respirando l’aria in cui ogni giorno viviamo e, come cura palliativa, blocchiamo qualche auto privata a diesel a targhe alterne.

Il provvedimento più facile, diciamocelo, anche se allo stesso tempo il più inutile di tutti: tutto il carico in capo a chi circola con mezzi obsoleti (raramente per scelta, ma per necessità), nessuna strategia educativa, nessuna strategia d’investimento, nessuna misura contro i grandi inquinanti. Fermiamo l’auto euro 2 del signor Rossi e ci dimentichiamo che

  • l’Italia è la terza nazione in Europa per trasporto merci su gomma
  •  dell’impatto di sistemi di riscaldamento (e raffreddamento) obsoleti
  •  di edifici ad alta dispersione energetica
  •  del costo per l’ambiente delle nostre scelte di acquisto (dall’impatto ambientale dei grandi centri commerciali al consumo di merci “a lunga percorrenza” che potrebbero facilmente essere reperite in loco)
  • delle nostre abitudini di accesso ai servizi (fruizione 24 ore su 24, 7 giorni su 7)
  • del parco mezzi del trasporto pubblico urbano non sempre adeguato alle esigenze di rispetto dell’ambiente.

Per cambiare davvero le cose “ci vuole un’altra vita”, come cantava Battiato, ma un’altra vita implica cambiamenti così radicali nel nostro sistema che, difficilmente, saranno realizzabili. Occorrerebbe ripensare i servizi, i tempi di vita e di lavoro, formare le persone a una diversa consapevolezza dell’impatto che le loro scelte “private” hanno sulla comunità, ripensare la mobilità urbana e farlo partendo dal dato centrale: la sostenibilità per l’uomo.

Ogni scelta che impatta esclusivamente – in termini di sacrificio – sul singolo soggetto è una scelta perdente. Ogni scelta ragionata, che implica l’apertura di nuovi percorsi e possibilità genera cambiamento. E così un genitore al quale viene permesso, da un profondo ripensamento culturale e imprenditoriale, di conciliare meglio tempi di vita e di lavoro, forse deciderà d’investire il suo tempo in una mobilità sostenibile per il futuro di suo figlio o avrà un momento per ripensare al suo sistema di acquisto e valutarne più attentamente l’impatto.

Il fattore tempo, per primo, agisce sul fattore spazio/ambiente. E di tempo, se non ci liberiamo rapidamente dal sistema schizofrenico in cui viviamo – un costante altalenare fra spreco e mortificazione momentanea – ne rimane davvero poco. Per l’ambiente e per le nuove, impoverite, generazioni che lo vivranno.

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