Costume
Abbiamo un problema di linguaggio. (Pamphlet all’odore di gelsomino)
“Detto questo …”, “Tanto per essere chiari …”, “Ma di che stiamo parlando?” Sono solo alcune delle gemme lessicali di un omologato frasario da talk, che sempre più va contagiando il linguaggio popolare, rendendolo omogeneamente banale. Lo stupidario politico della televisione, difatti, nel suo ricco campionario, offre agli italiani la possibilità di attingere a piene mani. Non c’è argomento di sorta che la moltitudine nazionale non affronti emulando i miserabili interlocutori di questa o quella schifezza televisiva. E non c’è problema sociale che attiri considerazioni diverse da quelle “ufficiali” dei palinsesti, elargite con tanta abominevole cura dai fini pensatori a gettone dei salotti sonnacchiosi. Cosicché, si (s)ragiona su tutto adoperando la prosopopea e finanche il piglio, solitamente litigioso, chiuso e sovraccarico di chi per indole e formazione si adagia su posizioni blande e banalissime, in difesa dello stato (in)naturale delle cose.
La politica come spettacolo di intrattenimento, e non come campo di confronto intellettuale, imperversa ovunque, provocando il dilatarsi di un atteggiamento mentale rovinoso, imperniato unicamente sullo sforzo di prevaricare e a difesa delle proprie convinzioni, spesso conseguenza (im)pura di interessi personali. Dalla tv ai social, fatte le dovute eccezioni, non vi è un talk o un blog che abbia in sé forza di attrazione, educata capacità di analisi e attinenza ai gusti di un pubblico esigente: ognuno è la brutta copia dell’altro, e tutti sono orientati terribilmente verso il basso, privi di qualsiasi aspetto gradevole, ostili a ogni forma di estetica, pregni di conversazioni fintamente pertinenti. Format del genere restano buoni solo per dare piena testimonianza della decadenza del paese, dove il contrasto tra la meraviglia del luogo e il vuoto interiore delle classi dominanti diventa l’unica chiave di volta per interpretarne l’involuzione.
Se in Italia vi è un problema culturale e, aggiungo, di educazione, questo inizia dal linguaggio. Eh, sì, abbiamo un problema di fraseologia, di lessico, di espressione scritta e parlata, ma, a quanto pare, nessuno se ne lamenta. Tanti scrittori adottano un linguaggio giovanilistico, trascurabile e modaiolo, cosicché anche il piacere della lettura viene minato alla base da un fastidioso refrain di ordine estetico. Mentre, i giornalisti, in maggioranza, si esprimono, ormai, seguendo canoni etici che, per loro natura, mai potrebbero essere espressi in forme eleganti di scrittura, o verbali. E, gli intellettuali? Quelli, veri, intendo, come i saggisti, i linguisti, i classicisti, cosa dicono? Abbiamo un problema di linguaggio e stanno zitti? Ma, come, tacciono proprio nel settimo centenario della morte dell’Alighieri, padre nobile della lingua italiana? In verità, non tutti sonnacchiano. Conosco un dantista che, da par suo, ha appena lanciato una straordinaria provocazione editoriale, con “Le parolacce di Dante”, edito da “Tempesta”. Uno studio, quello di Federico Sanguineti, che bisognerebbe leggere per risalire con leggerezza e metodo alle origini di un modo di dire e di esprimersi che appartiene a una lingua musicale, corretta, evocatrice, al servizio di una giustezza di spirito e, dunque, morale e politica.
Il fenomeno increscioso dei social, infine, che usa a dismisura un linguaggio sconveniente, fatto di giudizi spregianti e sentenze altezzose di varia grossolanità sugli argomenti più eterogenei, rendendosi altoparlante dissonante di insensate invettive e assurdità inverosimili, trova le sue ragioni di esistere nell’attitudine critica generale, urticante e scarsamente educata, di cui si ha deposizione sia sui giornali che nei programmi televisivi. Credo, francamente, che la costumanza relativa al linguaggio, in ogni sua forma di comunicazione, debba mirare a essere esteriormente apprezzabile. Tutto è convenientemente esprimibile e niente risulta essere indecente se mantenuto in una conformazione lessicale non degenerata. E, mi congedo (perché no?) con una autocitazione di maniera: “Non siamo uno stato, men che meno un popolo, non ci resta che osservare correttamente il congiuntivo come segno di appartenenza a una lingua.”
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