Costume
A quarant’anni da “Parco Lambro”
A quarant’anni da “Parco Lambro” – il famoso raduno degli hippy peace and love di casa nostra nel parco extracittadino di Milano avvenuto nel giugno 1976 – “L’Espresso” online tira fuori il vecchio numero cartaceo di quell’anno. Archeologia dei costumi si dirà. Ma i tempi andati in realtà sono ancora tra noi, sono come i “logoi spermatikoi” (o ragioni seminali) degli stoici; restando nell’aria le sue particelle hanno contribuito a inseminare l’evo presente. Sta agli storici del costume o delle idee ricostruire sia il quadro originario come le fecondazioni che produssero eventi come questo nelle menti di chi è venuto dopo. (Io pensavo ad altro in quegli anni, inseguivo il pane e il piccolo impiego che mi garantisse il periodico afflusso di limo alle mie rive essiccate dal deserto della penuria. E leggevo i romanzieri francesi coi quali ogni tanto vi scasso i cabasisi).
Annoto tre suggestioni. La prima, il singolare giudizio di Elvio Fachinelli – uno dei padri nobili del Sessantotto, autore de “L’Erba voglio”, un intellettuale oggi dimenticato ma che in quegli anni era già uno psicoanalista di vaglia e un osservatore non banale dei costumi di massa, peraltro molto ascoltato nel mondo giovanile – ebbene Fachinelli dice accennando ai corpi nudi dei giovani volentieri esposti alle telecamere che erano accorse in massa: «Non erano affatto erotici, come volevano essere. Erano terribili. Mentre giravano in cerchio con le ragazze a cavalcioni mi sono venute in mente le foto dei lager, le illustrazioni di Doré». Qualcun altro potrebbe ricordare, come immagine di riferimento, i corpi nudi dei giovani in “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini, se non fosse che le precedevano essendo dell’anno prima. La vita che imita l’arte? Entrambe le immagini, quelle del Parco Lambro e quelle di Pasolini, erano i primi nudi di massa, recepiti e approvati in quel torno di tempo, seppur nei modi ambivalenti dell’attrattiva e della repulsione, dall’immaginario collettivo.
La seconda suggestione è l’azione sugli stessi eventi, da allora di prammatica ma non ancora sufficientemente studiata, dell’effetto “moltiplicatore” dei media. Lo abbiamo visto anche con i grillini oggi: se conquisti i media (più che i congressi) sei tu il leader, l’unto del signore. I media non registrano gli eventi, li creano: è un assioma da società dello spettacolo che allora si stentava a comprendere in tutte le sue implicazioni pur avendo come baedeker il libro di Guy Debord che la illustrava. E infatti dice Eugenio Finardi: « Arrivarono le telecamere. Credimi, furono soprattutto le telecamere a cambiare tutto e a scatenare la follia. Se due stavano solo litigando, davanti alla telecamera si menavano. Se uno era mezzo nudo, davanti alla telecamera si spogliava del tutto. Prima le nostre feste erano solo l’espressione di una certa Italia, cosmopolita e pulita, forte e innocente. Diventando evento di massa, attirando i media, salta tutto».
Infine, il terzo elemento che mi ha colpito, è la “fine” che fanno le rivoluzioni. Finardi ha una battuta icastica che non si può non sottoscrivere. «Direi che vale l’assioma secondo il quale le rivoluzioni le iniziano i sognatori, le portano a compimento gli strateghi e le concludono i dittatori».
L’ipotesi sottotraccia, però neanche tanto occulta nella rievocazione che ne fa il settimanale, è che di quella esplosione giovanile di creatività, tanto libera quanto ostentata, fu il “sistema” ad avvantaggiarsi, e che quei corpi nudi dei giovani in festa, ma in favore di telecamera, testimoniavano in qualche modo la “desublimazione repressiva” di cui discorreva Marcuse, operata da parte del Sistema, il quale, concedendo la soddisfazione immediata degli istinti, depotenziava e ottundeva di fatto la carica onirica e liberatoria dell’investimento libidinale iniziale. Erano in agguato, insomma, a raccogliere l’eredità di quei “logoi spermatikoi” (è proprio il caso di dirlo), sia l’inventore del porno tricolore, Riccardo Schicchi, sia il promotore della società commerciale dello spettacolo, Berlusconi, i quali di lì a poco si insediarono come domini indiscussi dell’immaginario collettivo.
Quanto all’utilizzo da parte di terzi delle rivoluzioni (una buona ragione per tentarne il meno possibile, puntando sulle riforme) nel mio studio sul Sessantotto registravo questa battuta di Napoleone, uno che nientemeno della rivoluzione francese si era impossessato, ma emersa e ricordata nel Maggio francese: «Nelle rivoluzioni ci sono due tipi di persone: quelle che le fanno e quelle che ne approfittano». Già.
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