Giustizia
Cosima Buccoliero, una vita per i carcerati: «La persona non è il suo reato»
Ho conosciuto Cosima Buccoliero anni fa, quando era la direttrice del Carcere di Bollate, dove in quel periodo avevo attivo un progetto di responsabilità sociale con la mia azienda. Fin dal primo incontro sono rimasto affascinato da quel mix di umanità e profonda serietà professionale, tipico di chi lavora, con passione e dedizione, in contesti difficili, a stretto contatto con persone da “ricostruire”, sapendo però tirarne fuori il meglio, senza mai perdere la lucidità che un ruolo del genere richiede e mostrando sempre una spiccata sensibilità. La ritrovo così, nonostante un nuovo complicato incarico, entusiasta del suo lavoro, piena di energia, lucida nelle sue analisi e sempre più convinta del suo operato. Ci eravamo persi di vista negli ultimi anni, ma quando ho iniziato questa avventura con Gli Stati generali, ho subito pensato che lei fosse una delle persone da intervistare.
Il carcere non è punitivo, ma riabilitativo e ha come obiettivo la sicurezza sociale. Vogliamo spiegare meglio questo concetto, perché spesso, soprattutto di fronte ad alcuni crimini, è difficile da comprendere.
E’ vero, è difficile da comprendere perché la comunità cerca sempre di allontanare questo pensiero del carcere, ritenendolo spesso il male assoluto, un luogo dove “io non ci finirò mai, difficilmente io e la mia famiglia ne saremo coinvolti”. Invece andrebbe compreso che in carcere potrebbero finirci anche persone che non necessariamente provengono da contesti di emarginazione o delinquenziali. In questi anni si sono viste persone, con un percorso di vita regolare, incappare per motivi diversi nelle maglie della giustizia, con la conseguenza di finire in carcere o semplicemente nel circuito del sistema penale. La comunità quindi dovrebbe approcciare il problema in una maniera diversa, sicuramente meno distaccata, ponendo soprattutto l’attenzione sul fatto che le persone detenute, una volta scontata la pena, salvo casi numericamente limitati, escono dal carcere, ed è necessario fare in modo che non si crei una situazione di disadattamento alla realtà, che il carcere produce, se lo stesso è soltanto isolamento ed emarginazione. Le persone che escono dal carcere, se non vengono adeguatamente accompagnate, rischiano di rimanere comunque in carico ai servizi sociali o ai servizi psicologici, psichiatrici, per tentare di rimediare a un danno che la detenzione ha causato. Possono esserci poi ricadute anche all’interno della famiglia del detenuto. Conviene quindi a tutta la comunità non restare indifferenti al tema, anche perché il carcere ha un costo sociale. Pensiamo ad esempio alla sentenza Torreggiani che ha condannato lo Stato per atteggiamento disumano e degradante, in questo caso, molte persone hanno chiesto un forte risarcimento, un costo sostenuto dalla comunità. I fondi invece, come previsto dalla nostra Costituzione andrebbero spesi in una forma corretta, con l’obbiettivo che il detenuto possa avere una successiva possibilità, per evitare che resti in carico alla comunità per l’intera sua esistenza.
Cosa l’ha spinta a scegliere il carcere nella sua carriera? Dopo 24 anni non è mai andata in bornout?
Ho sempre messo molta passione nel mio lavoro, lo affronto sempre con entusiasmo, anche dopo tanti anni, non ho mai perso la convinzione che il modo corretto per lavorare in carcere sia quello di prestare una forte attenzione alla persona detenuta, è un modo per adempiere al mandato costituzionale, rispondendo alle aspettative dello Stato verso le persone che lavorano in carcere. Ho iniziato questo lavoro un po’ per caso, appassionandomi ai temi di diritto penitenziario all’università, non avendo però ancora deciso cosa fare una volta conseguita la laurea. Vidi poi casualmente un bando pubblico, partecipai, pur non conoscendo perfettamente in che cosa consistesse il lavoro indicato. Il lavoro poi l’ho imparato, più che sui libri, facendo esperienza e praticandolo. E’ un lavoro che ancora mi appassiona tantissimo.
Dopo soli 3 anni dall’inizio del suo lavoro in carcere, a Cagliari, è arrivata a Bollate, contribuendo a farne un modello di detenzione in Italia. Come ci siete riusciti e cosa manca alle altre case di detenzione per provare a fare questo passaggio?
A Bollate siamo riusciti a costituire un gruppo di persone con lo stesso obiettivo, che ci fu tramandato da chi aveva aperto il carcere, mi riferisco al Dottor Pagano e all’allora provveditore Dottor Bocchino. L’idea era quella di provare veramente ad applicare la normativa penitenziaria e il detto costituzionale, approfittando anche del fatto che il carcere fu costruito con ampi spazi finalizzati ad accogliere le attività trattamentali, in particolare le attività lavorative e non solo. Far parte di un gruppo che credeva in questo obbiettivo ha fatto sì che i risultati raggiunti siano stati il frutto di una collaborazione e un entusiasmo coeso. In molti degli istituti esistenti, con spazi maggiormente limitati, questi risultati sono più difficili da raggiungere, il problema dello spazio è un problema serio. Le persone che sono costrette a vivere in spazi angusti e stretti fanno fatica a mettersi in gioco in un processo di responsabilizzazione ed emancipazione. In altri istituti, oltre al problema dello spazio, va risolto anche il problema di sovraffollamento. Andrebbero poi concentrati gli istituti penitenziari verso alcune tipologie, la legge recita che andrebbero raggruppate le persone detenute per categorie omogenee, facendo in modo che non si mischino tra loro i vari circuiti media sicurezza, alta sicurezza, 41 bis, collaboratori, tossico dipendenti… Evitare quindi che ci sia promiscuità tra le diverse tipologie di detenuti.
Ora è Vice Direttrice di Opera, il più grande carcere italiano, come è stato il primo impatto? qual è la sfida più difficile che dovrà affrontare in questo nuovo percorso?
Il primo impatto è stato molto positivo, devo dire che Opera è un carcere ben organizzato, benché siano presenti all’interno diversi circuiti, quindi con diverse tipologie di persone detenute. Ci sono circuiti molto complicati, dall’alta sicurezza al 41 Bis. Affronterò questo lavoro così come ho sempre fatto, l’unico modo che conosco è quello di guardare, più che al reato e ai provvedimenti di protezione, alla persona, perché sono convinta che le persone possano cambiare, sono sicura che si possa avviare un processo di cambiamento, anche se questo può non valere per tutti, ci vuole anche una grande disponibilità della persona stessa. Sono convinta che si possano attivare delle leve del cambiamento e questo vale per tutte le persone, indipendentemente dal reato commesso. Questo è l’unico modo di lavorare che conosco ed è un modo che mi fa stare bene, dove trovo soddisfazione per ciò che faccio. Il mio obbiettivo è sempre quello di prestare attenzione alla persona più che al reato commesso.
Ci sono i presupposti per farla diventare una nuova Bollate?
Ci sono caratteristiche diverse, Opera è un istituto che ha fatto grandi passi verso l’apertura, proprio perché è stato sempre un istituto che ha ospitato detenuti di un certo livello di pericolosità, quindi con la messa in campo di particolari misure di sicurezza. Nonostante questo il carcere negli ultimi anni si è molto aperto all’esterno, ci sono tante persone che erano incarcerate e fanno attività, questa cosa è accaduta anche nel periodo della pandemia, a dimostrazione della volontà di mantenere anche solo un minimo di continuità di collegamento con l’esterno. Opera ha fatto grandi passi in avanti verso l’apertura e tanti altri ne può fare. Ci sono ampie prospettive e grandi progetti messi in campo nei prossimi mesi e che daranno i propri frutti nel medio periodo.
Continua a dirigere anche il Carcere Minorile Beccaria. Qual è la più grande differenza fra una casa di reclusione per i minori e un carcere per adulti?
Rispetto ad un carcere per adulti il carcere minorile presenta molte differenze, la prima da evidenziare è che nessuno dei ragazzi che entrano in carcere aveva previsto consapevolmente di avviare un percorso criminale. I ragazzi che arrivano al Beccaria sono ragazzi che hanno fallito molte misure alternative. Il sistema della giustizia minorile in Italia funziona molto bene, il carcere viene utilizzato veramente come estrema ratio, quelli che vi arrivano hanno purtroppo fallito precedenti provvedimenti, ma questo non dimostra ancora che si tratti di piccoli delinquenti, ma spesso di ragazzi che hanno situazioni familiari, di personalità, condizioni sociali particolari, che gli hanno impedito di approfittare delle misure, degli strumenti atti ad evitare il carcere. Bisogna quindi lavorare su questo, ricercare quelle carenze che non si è riusciti ad intercettare prima, con la conseguenza successiva del carcere.
Cosa vuol dire per una mamma come lei, dirigere un carcere dove i detenuti hanno la stessa età dei suoi figli?
E’ una cosa molto difficile, mi genera sofferenza, cerco di lavorarci, di lavorare sul carico emotivo che questo lavoro comporta. Non è facile, ho un figlio che compirà 14 anni il prossimo novembre e sono cosciente che da quel momento in poi sarà un ragazzo imputabile. Al Beccaria cerchiamo di lavorare per fare in modo che i ragazzi vi rimangano il minor tempo possibile, facendo in modo che questo periodo non sia sprecato inutilmente, altrimenti sarebbe un fallimento per tutti, per noi e per i ragazzi stessi. Cerchiamo di lavorare fornendo loro strumenti che poi possano utilizzare all’esterno, cerchiamo di instaurare con loro una relazione di fiducia. Molto spesso i ragazzi che arrivano in istituto non si fidano degli adulti, perché molti di loro hanno avuto, nonostante la giovane età, percorsi di vita difficilissimi che hanno fatto venir meno la fiducia negli adulti. Ecco il nostro compito è di creare una nuova relazione di fiducia e spesso ci si riesce, tutto il personale penitenziario si mette a disposizione per superare il primo gradino, il primo scoglio.
Secondo lei, che conosce le storie e i vissuti dei ragazzi che arrivano al Beccaria, cosa manca fuori e, in un’ottica di collaborazione fra il dentro e il fuori, quali sono gli interventi da mettere in atto nella nostra società, per impedire che l’adolescente arrivi al reato?
La maggior parte dei ragazzi che arrivano al Beccaria sono di nazionalità italiana, spesso da genitori stranieri ma nati nel nostro Paese, parliamo di ragazzi che hanno frequentato il percorso scolastico e quindi inseriti nel territorio. Molti di loro sono già stati segnalati in tenera età ai servizi esterni del territorio o all’U.O.N.P.I.A. o ai servizi sociali, è opportuno intervenire sulla prevenzione, il reato spesso rappresenta l’apice di una difficoltà, di un disturbo che aveva radici lontane. E’ importante investire maggiormente nei servizi esterni, soprattutto nella scuola che spesso si ritrova a non sapere come fronteggiare disturbi e situazioni particolari, c’è carenza di insegnanti di sostegno, come di insegnanti che seguano i ragazzi anche nel dopo scuola. Il carcere non può essere visto come una soluzione derivata da un fallimento dei servizi esterni che magari non sono stati in grado di fronteggiare situazioni difficili, per mancanza di risorse. Non si può chiedere solamente al carcere di affrontarle e di risolverle, andrebbero sicuramente potenziati i servizi sul territorio.
In generale per un detenuto e per tutta l’attività di un carcere quanto è importante mantenere un contatto con l’esterno?
E’ fondamentale, è imprescindibile, non si può pensare di reinserire una persona nella società dopo che, per molti anni o solo per pochi mesi, è stata ferma isolata dal mondo esterno. Il mondo esterno, come sappiamo, corre velocissimo e la persona, anche dopo poco tempo, si ritrova in un luogo in gran parte cambiato, come è cambiata la persona stessa, che paga il periodo di isolamento portandolo in una situazione di destabilizzazione e di desocializzazione. Pensiamo ad esempio a quanto è accaduto in questi mesi di pandemia, dove, nonostante gli sforzi da parte delle amministrazioni, c’è stata una battuta di arresto rispetto al contatto con il mondo esterno, questo ha portato il carcere a vivere una desocializzazione, costringendo le persone a vivere un tempo “sospeso” ancora maggiore di quanto lo sia già comunemente in questo luogo. Il carcere non può funzionare senza collegamento con il mondo esterno, senza collegamento con la comunità.
Nelle ultime settimane si è parlato molto delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, qualche giorno fa sul Corriere della Sera è uscita un’inchiesta della Gabanelli sull’esplosione di violenze e aggressioni in carcere, senza contare che sono aumentati anche i casi di autolesionismo. Nella maggior parte dei carceri i detenuti non lavorano. È davvero solo questa la svolta, così come succede nel Nord Europa?
Non posso esimermi dal condannare, senza se e senza ma, quello che purtroppo le cronache recenti ci hanno riferito in merito ai fatti accaduti nel carcere di Santa Maria Capua Venere, è una bruttissima piaga che scredita tutto il sistema carcere italiano. Non è così, l’esperienza mi insegna che ci sono tante persone detenute che approfittano delle opportunità offerte dal carcere, che consentono loro di avere un importante strumento utilissimo poi all’esterno. A Bollate abbiamo da tempo avviato dei percorsi di formazione con la Cisco Systems, che ha portato le persone detenute ad approcciarsi in maniera diversa al mondo del lavoro, ci sono poi realtà virtuose di imprenditori che hanno investito in carcere, assumendo persone detenute che si sono reinserite all’esterno. Come vede questa è un’immagine che non coincide con quanto visto a Santa Maria Capua Venere, benché resti un fatto che ci deve far riflettere. Sicuramente il lavoro è un elemento fondamentale, le attività lavorative all’interno andrebbero potenziate, le persone lavorando acquisiscono competenze e professionalità, impiegando il loro tempo in maniera produttiva, rimanendo vicini alla modalità di vita comune, alla vita ordinaria. Significa mantenere un collegamento con la società, che non interrompa una normale esistenza interrotta fisicamente dall’ingresso in carcere. Il lavoro però non è tutto, dobbiamo investire sulle relazioni con le persone detenute, molto spesso i reati derivano dalla mancata relazione con il prossimo, mi riferivo prima alla necessità di potenziare l’attività dei servizi esterni appunto per accrescere lo stare insieme nella società. Venendo al servizio apparso sul Corriere della Sera a firma Gabanelli, devo dire che non mi trova assolutamente d’accordo. Non so quali siano state le fonti che hanno generato questa inchiesta, e quali dati siano stati presi, come riferimento, per affermare quanto si è letto. La legge ci dice che le persone detenute devono essere messe nelle condizioni di poter vivere all’interno del carcere, svolgendo attività lavorative, attività trattamentali, attività sportive, mantenendo la relazione con gli altri, non soltanto i detenuti o il personale penitenziario, ma anche con gli operatori esterni. La legge ci impone di organizzare la vita della persona detenuta sulla falsa riga di ciò che succede all’esterno, facendo in modo però che non ci sia un controllo costante e continuo da parte del personale penitenziario. La persona detenuta deve muoversi, pur all’interno dei confini del carcere, senza avere questo controllo costante. L’obbiettivo è quello che la persona detenuta riacquisti pian piano degli spazi sempre maggiori di libertà all’interno del carcere. Il carcere di Bollate ne è un esempio concreto, il fatto che le persone si possano muovere all’interno delle diverse sezioni, se pur con un controllo dinamico da parte del personale, fa sì che ci sia una diminuzione delle tensioni. Queste aumentano nel momento in cui il detenuto si trova a stare in spazi eccessivamente ristretti, dove ha poche possibilità di movimento. Un’organizzazione che consente una maggiore libertà di movimento seppure adeguatamente controllata, abbassa le tensioni e questo vale, non solo per i detenuti ma anche per tutti gli operatori. Non comprendo quindi come il servizio sia arrivato ad esprimere un concetto esattamente contrario rispetto a quello che invece sono le evidenze e la documentazione in nostro possesso.
Si parla sempre e solo dei detenuti, ma quanto è fondamentale, per la buona riuscita di un progetto, che chi lavora in carcere (pensiamo alle guardie, agli piscologi… ) sia altamente formato e in grado di gestire, anche emotivamente, il carico che un lavoro di questo tipo può dare?
Negli ultimi tempi grandi risorse sono state impiegate nella formazione del personale, una formazione che deve essere trasversale, perché in carcere, pur con ruoli diversi, ci si trova ad affrontare situazioni simili, tutti noi, la direzione, il personale di polizia penitenziaria, il personale della rieducativa, gli psicologi, i volontari, in carcere è necessaria quindi una formazione congiunta, che deve fornire gli strumenti necessari ad affrontare, non solo le criticità, ma anche poter essere messi in grado di accompagnare le persone detenute all’esterno. Il nostro è un lavoro carico di emozioni, bisogna essere in grado di mantenere la giusta distanza, perché il rischio, oltre la difficoltà, è che l’azione diventi anche inefficace rispetto al mandato, ci vuole quindi una grande attenzione a tutto il personale
L’Ambrogino d’Oro, meritatissimo, cosa ha significato per lei?
È un stato un riconoscimento inaspettato, sono ancora molto sorpresa. Il riconoscimento è per un lavoro di gruppo che è stato fatto nel carcere di Bollate, dove abbiamo lavorato molto con la comunità esterna e con la città di Milano fin dal principio, fin dall’inizio degli ani 2000, la comunità cittadina è sempre stata molto presente, la compartecipazione tra noi, i detenuti e la comunità esterna ha fortemente contribuito all’organizzazione del carcere. L’Ambrogino d’Oro va quindi condiviso per questa attività di gruppo, non dimenticando quanto la città di Milano ha fatto per il carcere stesso.
Devi fare login per commentare
Accedi