Cibo

Il pomodoro, oro rosso della civiltà mediterranea

3 Settembre 2017

La dedizione alla coltura del pomodoro è la chiara dimostrazione della presenza della civiltà mediterranea. Effettivamente il pomodoro ha rappresentato l’oro rosso ed al di là degli aspetti e delle ricadute economiche soprattutto per le popolazioni del sud Italia che ne curavano la coltivazione, intorno ad esso è nato il senso della famiglia.

Ci ricorda Domenico Rea, grande scrittore ed intellettuale partenopeo, che coltivare e mangiare un pomodoro è come amare una bella donna. Ed è così; perché bisogna sapere che per la sua coltivazione occorre solo avere pazienza, come del resto avviene quando si corteggiano le donne eleganti.

Infatti, come il corteggiamento esige l’attesa, la delicatezza di ammirare, come dice il poeta, amo i fiori che non colsi (Guido Gozzano),  la sola bellezza della donna eletta, perché solo questa basta, alla stessa stregua occorrono poco ingredienti per tirare su un pomodoro: acqua e sole.

Infatti il pomodoro nasce nell’agro sarnese-nocerino, in ragione del fatto che durante i mesi estivi da giugno a settembre in questi luoghi a ridosso di Salerno il sole batte sino a raggiungere i 40 gradi ed  il terreno è alimentato da sorgenti di acqua pura, almeno così accadeva negli anni del secondo dopoguerra con il fiume Sarno, per la coltivazione del pomodoro San Marzano.

Con semi che furono importati nel 1500 dal Perù sono nate le piantine di pomodoro che vengono posizionate a primavera con il sistema dei filari, in terreni irrigati assiduamente in zone fortemente soleggiate. Il raccolto avviene durante il mese di agosto con la cosiddetta campagna del pomodoro, una splendida festa nella quale partecipano tutti, uomini e donne, procaci e bellissime.

In questo scenario proprio Rea ha dato vita ad un romanzo famoso: Ninfa Plebea.

Il pomodoro è buonissimo: accompagnato con sale ed olio (l’oro giallo) e con il pane bagnato, perché seppur duro le donne meridionali non lo buttavano, si consumavano le libagioni della civiltà contadina.

Oggi il pane duro di un tempo è sostituito dalla fresella.

Proprio Domenico Rea ci ricorda che a Napoli e nelle città di provincie vi era il rito di “conservare l’estate” (Domenico Rea  L’Estate in Bottiglia Corriere dell’Informazione 12-13 marzo 1958).

Infatti i pomodori o venivano ridotti in una passata, concentrato di polpa con macchinette passatrici- raffinatrici fatte di acciaio, con dispositivi dotati di energia elettrica o tagliati in senso verticale per essere inseriti in bottiglie di risulta. Queste ultime  venivano coperte con carta di giornale e calate in un recipiente denominato bidone, sotto il quale si accendeva un fuoco. Secondo Luciano De Crescenzo la carta che bisognava utilizzare per evitare la crepatura delle bottiglie durante la cottura, era quella dei settimanali, perché più dura rispetto a quella dei quotidiani e perciò in grado di coprire meglio l’involucro di vetro. Lo racconta in “Così parlò Bellavista”.

Così messe in cottura e conservate queste bottiglie, che potevano” schiattare” (crepare), anche con forti rumori, a seconda della capacità certosina di saperle bene imbacuccare con resistente carta di giornale, si riversavano, in inverno,nelle cucine delle nostre mamme, che le utilizzavano per il ragù o per preparare una salsa rossa buonissima,che costituiva il letto su cui riposava la pasta di Gragnano fatta di maccheroni o di spaghetti.

Si conservava l’estate anche attraverso l’essicatura  di pomodori, che poi venivano inseriti in vasetti sott’olio e mantenuti così per tutto l’inverno. Li ritrovavi sulle tavole imbandite nelle sere fredde e rimembravi l’estate.

Gaetano Afeltra, grande giornalista del Corriere della Sera, quando c’erano Montanelli, Montale, Soldati, Buzzati, ci ricorda quello che accadeva a Napoli o nella sua amata Amalfi.

I ragazzi negli anni cinquanta nel secondo dopoguerra, quando ancora si soffriva la fame, mettevano in una saccoccia di pezza pane duro,  pomodori, una piccola bottiglia di olio fragrante e di vino frizzantino  e si recavano al mare: bagnavano il pane che rubava all’acqua marina il sale: spargevano e strofinavano  sul pane oramai inzuppato e reso morbido dall’acqua, la colata di semi, che derivava dal taglio centrale dei pomodori a forma di candela.

In questo modo crescevano i ragazzi del sud incentivati dalla goliardia, dalla freschezza di prendersi un gozzo ed andare al centro del mare: nuotare e fare tuffi. Poi presi dalla fame divoravano quella che allora poteva essere la merenda di oggi (Corriere della Sera 29/7/1986).

La passata di pomodoro, con cipolle e carni di maiale o di vitello era ed è l’ingrediente fondamentale del ragù, la cui ricetta ed i cui tempi di cottura sono ben descritti, con l’amore è la passione per le cose partenopee, da Eduardo De Filippo nella famosa e brillante commedia Sabato, Domenica e Lunedì.

Il ragù è un rito che va imbastito già il sabato per un’intera notte, in modo che possa, come si dice a Napoli, pippiare, che significa bollire a fuoco lento per oltre 10 ore.

L’obiettivo è quello di tirarlo al massimo, in modo che il sugo, di un rosso intensissimo, possa essere rappreso dalla carne intanto rosolata che in esso è stata calata: vitello, salsicce, tracchiolelle.

Veniva bollita poi la pasta costituita di solito dai maccheroni, le candele, i  cosiddetti ziti, quelli lunghi che bisognava per forza spezzare per contenerli in una grossa pentola di rame scelto.

Il sugo densissimo si incollava agli ziti che venivano ricoperti dal formaggio grattugiato.

Cosi si preparava il pranzo domenicale, innaffiato da un buon vino e si raccoglieva la famiglia dopo l’ascolto della Santa Messa. Si concludeva con dolci prelibatissimi: sfogliatelle e babà.

La carne in abbondanza calata nel sugo rosso di solito veniva riscaldata il lunedì, in modo da far continuare il sapore della festa domenicale.

In una famosa poesia in lingua napoletana “O’ rrau” Eduardo rimprovera la di lui moglie perché disattenta, indisciplinata, non puntuale a seguire la ricetta della fattura del ragù napoletano. Finisce ironicamente la poesia dicendo questo non è ragù, ma carne con pummarola, con pomodoro.

Pietro Citati, finissimo intellettuale e critico letterario così ha elogiato i pomodori: il pomodoro per me è il cuore del mondo. Non la salsa di pomodoro, o il pomodoro al riso, che sono già degenerazioni, ma il puro pomodoro, condito con olio e sale. Lo mangiavo senza stancarmi mai, perché mi sembrava che non sopportasse paragoni nemmeno con i capolavori della cucina ligure: la torta pasqualina, e la cima. Il pomodoro era il frutto supremo del Mediterraneo: indorato, accarezzato, amato dal sole, che formava dentro di lui la polpa sostanziosissima, dove affondavo i denti, la pelle delicata, i semi, il profumo squisito, il colore, degno di Chardin e di Veronese. Quando lo mangiavo, ero penetrato dalla sostanza del sole, trasformato in una pianta. Insieme al cattolicesimo, costituiva l’ essenza della civiltà mediterranea: stemperava gli eccessi ascetici della religione, invocava indulgenza per i nostri peccati, ricordava che noi siamo, in primo luogo, corpi. Il vero pomodoro ha forme diverse, complicate, con spaccature e screziature, e talvolta generosi, aspetti barocchi, che piacevano ai pittori, napoletani del diciassettesimo secolo (Repubblica del 18 agosto 2006).

Neruda ne scrisse un’ode:

La strada si riempì di pomodori, mezzogiorno, estate, la luce si divide in due metà di un pomodoro, scorre per le strade il succo.

In dicembre senza pausa il pomodoro, invade le cucine, entra per i pranzi, si siede riposato nelle credenze, tra i bicchieri, le matequilleras, le saliere azzurre.

Emana una luce propria, maestà benigna.

Dobbiamo, purtroppo, assassinarlo:

affonda il coltello nella sua polpa vivente, è una rossa viscera, un sole fresco, profondo, inesauribile, riempie le insalate del Cile, si sposa allegramente con la chiara cipolla,

e per festeggiare si lascia cadere l’olio, figlio essenziale dell’ulivo, sui suoi emisferi socchiusi,

si aggiunge il pepe la sua fragranza,

il sale il suo magnetismo: sono le nozze del giorno

il prezzemolo issa la bandiera,

le patate bollono vigorosamente,

l’arrosto colpisce con il suo aroma

la porta, è ora!

andiamo!

E sopra il tavolo, nel mezzo dell’estate, il pomodoro, astro della terra, stella ricorrente e feconda, ci mostra le sue circonvoluzioni, i suoi canali, l’insigne pienezza e l’abbondanza senza ossa, senza corazza, senza squame né spine,

ci offre il dono del suo colore focoso e la totalità della sua freschezza”.

Il pomodoro, l’oro rosso della civiltà mediterranea.

 

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