Cibo
January Blues. Pasta Ceci e Baccalà, Gamberi Rossi, Carciofi e Puntarelle
Sono stati giorni di tavole apparecchiate nei dettagli, di tovaglie stirate “en place”, preceduti da settimane di pensieri ossessivi, serate di prove parziali e quasi generali, assaggi per me solo oppure condivisi con gente ignara e di passaggio, ore a immaginare cambiamenti negli antipasti, contorni e dolci per provare a conservare il senso complessivo di un pranzo, mai due portate con lo stesso ingrediente, nessuna frullataggine o tagliuzzamento né mischiatura che potessero essere considerati una portata, in cucina si cucina, nessun piatto che uccidesse la possibilità di mangiare il prossimo o obbligasse il cuoco commensale ad assenze troppo lunghe dalla tavola, quindi finalmente la decisione del nuovo menù, sei antipasti, una zuppa, un secondo, due contorni e due dolci, ordinati in uno schema di lavorazione cui è seguito lo studio per la calibratura del tempo nelle tre settimane che hanno preceduto il Pranzo di Natale, con i giorni sezionati per conciliare il mio lavoro con la preparazione, un sistema di gesti a ritmo e intensità crescenti che a partire da sabato uno si è propagato fino a occupare le singole ore, a loro volta divise, quando si è trattato delle ultime, in spazi da dieci minuti, con ogni movimento sistemato in base alla sua posizione nel processo, pianificati i percorsi, gli acquisti, le soluzioni di emergenza, i tempi per gli abbattimenti, le preparazioni intermedie, la cottura, la predisposizione finale al servizio in piatti singoli, da portata o casseruole, la riconduzione a temperatura e finalmente il servizio delle otto portate, oltre a dediche e postfazioni, arrivate in tavola a partire dalle quattordici del venticinque dicembre per accogliere i commensali, quelli vecchi e taciturni, consapevoli del proprio ruolo di perpetuatori, quelli antichi toccati dalla corresponsabilità per la riuscita che quindi parlano sugli eccessi di silenzio e tacciono al crescere delle parole, poi quelli occasionali, sempre indecisi su cosa fare, una vera lotteria delle delizie che quest’anno, però, ha portato conoscenti vaghi e un’ininterrotta successione di etichette mentali camuffate da domande di cui nemmeno loro attendevano la risposta, tutta gente in transito, i commensali, qualcuno sospeso in attesa del primo giorno lavorativo, utile a farsi timbrare il passaporto giusto, sbloccare la pratica necessaria a chiudere l’anno, aggiustare il mezzo che si era rifiutato di partire la sera del ventitré, qualcun altro malinconico per tutti quegli anni passati insieme in quel giorno, un paio tra noi nell’attesa di un ritorno importante a ricostituire il rito, o dell’anno in cui si compirà la cosa giusta che lo renderà perfetto, come dovrebbe essere e non è mai stato, tutti insieme i commensali, a far scorrere prima piatti e bicchieri e col passare delle ore solo sorsi e assaggi di quanto ancora una volta avevo preparato per giorni e giorni, ascoltando musica ad alto volume nell’inerzia del ricordo di quando cucinando il Pranzo di Natale pensavo di fare la storia della mia famiglia, mentre ormai e per il secondo anno consecutivo avevo sentito la stanchezza di un gioco che probabilmente è sempre stato solo il mio. Quindi con l’anno prossimo smetterei, ho pensato senza crederci, e con i soldi che mi costa la vicenda partirei per l’India, anche se so che non lo farò, non sopporterei la responsabilità per la cancellazione di un rito, quello dei pranzi e cene delle Feste, che non è solo roba mia, ma anche di tutti i fedeli e cari ospiti fissi, ma che soprattutto è una delle regolarità con cui ho cresciuto Mariamedusa e sulle quali poggia il suo sentire per la realtà, cose che per lei sono così perché è normale che così siano, perché così sono sempre state e così, lei pensa nei suoi diciassette anni, per sempre saranno, anche se quest’anno, eccezionalmente, i quattro mesi di studio in Brasile l’hanno tenuta lontana, ma tanto qualcuno a proteggere il suo mondo per restituirglielo intatto c’è restato. Posso quindi tradirla? Unicamente perché mi sento solo in questo affaccendarsi complesso che dall’inizio di novembre porta a questa giornata? No, a meno che non voglia essere io il primo a rivelarle che la vita che diamo per scontata può cambiare per sempre e senza preavviso, senza nulla che si possa fare per evitarlo, nè per rimediare.
E’ con il freezer pieno di rimanenze e questi pensieri nello stomaco che estenuato, la sera del 7 gennaio, guardavo al tunnel deserto dei mesi di gennaio, febbraio e spesso tutto marzo. Avevo ignorato per settimane la casella di posta del Paladar, non potendo occuparmi nella baraonda furiosa delle feste anche dei miei ospiti poco paganti. Come era prevedibile, con una Milano piena di turisti, le richieste perse sono state molte: due famiglie olandesi con figli adolescenti, una coppia di divorziati tra loro, residenti a Cracovia, un professore di Chicago in viaggio per Bucarest, una vedova di Sapporo in visita al figlio, un gruppo di quattro amici di Cosenza, due monaci Buddisti di Luang Prabang e una email troppo essenziale perché potessi capire molto di più della semplice richiesta di due Estoni che chiedevano di essere ospitati per una cena. Ho risposto a ciascuna scusandomi per il mancato riscontro, ho addotto il Natale come giustificazione, sperando che tutti ne potessero comprendere la portata devastante in termini di impegno.
Dopo aver chiuso l’ultima email ho visto un nuovo messaggio arrivato proprio in quella mezz’ora, lo apro. “Gentile Gerineldo, mi chiamo Aniello Vignoni e ho ricevuto i suoi riferimenti dal padre di una compagna di scuola di mia figlia, il quale è in amicizia con una signora trasferitasi a Phoenix e il cui marito italiano ha frequentato il Paladar Marconi. Vivo a Milano e vorrei venire a cena. Decida lei la data, ma presto. E’ una sorpresa per Vera, mia moglie, milanese da 4 generazioni, mentre io sono romano da molto prima. Abbiamo trascorso gli ultimi ventitre anni a Roma, ma a settembre abbiamo deciso di trasferirci: Milano è più semplice e io che già ci lavoravo a 56 anni ero stanco di fare il pendolare, e lo era Vera di questa infinita intermittenza e a nostra figlia quasi adolescente, pensavamo, avrebbe giovato una famiglia meno episodica, in una città con più prospettive intellegibili. Pensiamo di avere fatto la cosa giusta: noi abbiamo sempre badato a fare le cose giuste prima, perché giuste sarebbero state quelle seguenti. Per le feste il ventuno dicembre siamo tornati a Roma nella nostra casa al quartiere Fleming dove ad aspettarci sono stati giorni strani, assolati e silenziosi, scivolati nella naturale confidenza con i luoghi, ma stranamente segnati dalla mancanza di impegni propria della provvisorietà. Il ventisei per approfittare di un pomeriggio particolarmente luminoso, abbiamo fatto un lungo giro in motorino per Roma e durante una sosta, guardando dalla terrazza sul Gianicolo, Vera mi ha detto, “Puoi aiutarmi? Io non so se ce la faccio”. Non ho risposto né subito, né poi a una domanda così importante. E Vera non si aspetta, credo io, che provi a darle soluzioni parlate. E’ una donna resistente, attenta e siamo insieme da così tanti anni. Provo a farle, le risposte, invece che dirle, e se saranno quelle giuste se ne accorgerà. Lei Gerineldo vorrei che fosse un minimo inizio. Cordiali saluti, Aniello Vignoni.
P.S. Vera mangia poco e mai la carne. Non mettiamola in imbarazzo costringendola a rifiutare. Per il resto faccia lei.
Ho preso l’ultima frase come un via libera sugli ingredienti, quindi sui costi, e gli ho risposto intorno a mezzanotte dopo aver guardato due puntate di 1983 su Netflix ed essermene pentito. “Gentile Aniello, vi aspetto la sera di venerdì 11 qui al Paladar e tutto ciò che potrò fare per voi sarà cucinare. Se ne ha avuto notizia, saprà come funzionano gli associati Chinese Whispers: si paga rimborsando le spese che sarà mia cura evidenziare, poi se vorrà potrà remunerare cuoco, servizio e ambiente. Sarà una cena molto semplice e adeguata alla post Natalità. Certo di incontrare i gusti di Vera la saluto cordialmente, GM”.
Hanno suonato verso le otto e mezza, ho aperto e nei pochi minuti necessari a salire le scale ho spento la radio di cucina e acceso lo stereo in soggiorno perché ad accoglierli con nonchalance ci fosse Coleman Hawkins, col disco Today and Now. Per le grandi cose in fatto di musica ragiono ancora a LP. Dopo pochi minuti sono arrivati alla porta, lui di media statura e insolitamente solido: cosce grosse, dita grosse, forma quadrata. Un uomo naturalmente simpatico, con uno sguardo chiaro. Lei una bella cinquantenne magra e senza sorrisi, poco più alta del marito, di maniere squisite e molto a suo agio nella sorpresa e nella novità di quell’incontro, scura di carnagione e capelli, con un taglio alla francese. Era vestita di scuro, con i pantaloni e un maglione, mentre lui portava uno spezzato, un look partorito direttamente negli anni ottanta, scarpe scamosciate, pantaloni di lana grigi e giacca sul marrone a quadrettini. In piedi, ancora davanti alla cucina, mentre offrivo loro un vermouth ho cominciato a spiegare il menù, “ho preparato un’insalata di carciofi, quelli sardi e con le spine, da mangiare crudi, per provare a far capire anche a degli antichi romani come voi, che i romaneschi non coprono l’orizzonte del legittimamente possibile in fatto di carciofi.”
Ho esordito con l’intenzione di essere simpatico e l’effetto di sembrare provocatorio. Vera però ha sorriso per la prima volta e facendolo ha detto “non dimentichi che io a Milano ho passato i miei primi 28 anni e con mia madre, la cuoca migliore che abbia mai incontrato, sono sempre andata al mercato di Benedetto Marcello e di carciofi ne abbiamo comperati molti e di ogni tipo”. “Le madri possono essere un problema”, ho replicato prontamente, “quando cucinano troppo bene per qualche ragione sembrano assolvere i figli dal dovere di farsi un’idea propria sull’argomento e resta la possibilità che tutti questi anni romani, cui mi ha accennato tuo marito, ti abbiano portata sulle loro posizioni. Comunque, oltre ai carciofi e sempre per antipasto vi offrirei un crudo di gamberi rossi del Mediterraneo conditi con una emulsione di olio e succo di radice di zenzero. Per proseguire ho poi pensato a una pasta ceci e baccalà, quindi per non fermarsi sul più bello anche un leggerissimo secondo etnico: l’insalata di puntarelle e acciughe. C’est tout, visto che per i dolci non è stagione.” Intanto avevo preso a guardarli negli occhi per cogliere titubanze e ascoltare commenti. E’ stato Aniello fino al quel punto sorridente, che liberando una risata ha esclamato “ma questa non è una cena, questo è un litigio tra romani e milanesi”, quindi si è avviato verso la sala, seguito da Vera e da me che li ho solo fatti accomodare prima di tornare in cucina e restarci quasi sempre per il resto della serata, lasciando i due soli, ad assaporare i propri silenzi.
Le quantità qui indicate sono abbondanti, ma per due persone; tranne il sugo che solo per due non si può proprio fare.
Crudo di gamberi rossi del mediterraneo. Ingredienti: 250 grammi di gamberi, costosi ma sublimi. Una radice di zenzero, poco sale, olio evo dal sapore consistente.
Procedimento. Sguscio i gamberi lasciandone intatto il corpo morbido, quindi li dispongo in un contenitore per abbatterli in freezer: non uno spora l’altro, ma in un contenitore piano, tipo quelli che contengono gli affettati. Li scongelo a temperatura ambiente in un tempo da quattro a sei ore: se servono per cena, considerando i tempi della marinatura li estraggo a metà mattina. Se servono per pranzo li estraggo la sera prima ma li metto in frigo e poi è solo al mattino che li tiro fuori. Una volta scongelati li sciacquo delicatamente con acqua fredda e li asciugo su un canovaccio pulito (non bianco o chiaro) per evitare di diluire il condimento con l’acqua residua. Quindi li dispongo su un piatto di portata in una successione di mezzelune, oppure – se sono pochi – su un piatto tondo formando una sorta di girandola. Per il condimento grattugio una radice di zenzero, rimuovo con la punta del rebbio di una forchetta la grattugia dai fili fibrosi che inevitabilmente la ricoprono, li metto in un piccolo colino a maglie fitte appoggiato su un bicchiere e schiaccio col pollice per estrarre il succo che unisco con quanto ottenuto grattugiando e pulendo accuratamente la grattugia. Essenziale è riunire solo polpa fine e liquido: nessuna fibra. Poi con due cucchiai dell’estratto, mezzo bicchiere di olio evo e un pizzico di sale realizzo un’emulsione ricorrendo a una piccola frusta. Infine stendo il preparato sui gamberi i quali a loro volta vanno fatti riposare in frigo almeno due ore e serviti dopo essere stati estratti dal frigo da circa un’ora. Altrimenti l’olio sarà eccessivamente denso e sgradevole. Vanno serviti come prima cosa tra gli antipasti e volendo si combinano benissimo con i pomodori confit, ma per questa serata non avevo anima.
Insalata di carciofi con concassè di pomodoro e anime di scamorza. Ingredienti: un grosso pomodoro maturo, due carciofi sardi della qualità migliore, scamorza affumicata piuttosto “asciutta”, limone, olio evo, sale e pepe.
Per la Concassè faccio bollire il pomodoro per trenta secondi, poi lo getto in acqua gelida e rimuovo buccia e semi interni quindi taglio la polpa a listelli (non a cubetti). Per i carciofi al solito: indosso gli essenziali guanti in lattice, taglio i gambi, rimuovo le foglie e a un certo punto di questa rimozione con un coltello da cucina grosso e affilato, taglio le punte, poi proseguo con l’eliminare le ultime foglie fino a giungere a quelle più morbide. A questo punto faccio un ultimo giro, taglio in due e rimuovo la barba interne. Con lo stesso coltello grosso, poi, taglio a spicchi molto sottili le due metà e li immergo in acqua e aceto. Poco prima di condirli li estraggo, asciugo con la centrifuga per l’insalata (o messi in un canovaccio ben chiuso, faccio roteare il braccio sul balcone) e condisco con olio, pepe, eventualmente un goccio di aceto (potrebbero essere sufficiente l’acidità derivante dalla precedente immersione) e olio di oliva. A questo punto mischio il pomodoro e solo dopo che tutto è pronto aggiungo delle anime di scamorza affumicata (sottilissimi pezzi, asportati dal corpo della scamorza con un coltello affilatissimo). Non conosco nessuno a cui non sia piaciuta. Molto. Importante è assemblarla poco prima di servirla.
Pasta, ceci e baccalà. Ingredienti: una scatola di pelati, una scatola piccola di datterini pelati (entrambi poco acidi, i migliori che abbia provato tra quelli commerciali sono i Mutti), tre etti di pomodori datterino o ciliegino freschi, circa 300 grammi di baccalà pronto per l’uso (quindi dopo il procedimento di ammollatura); non serve che sia una pezzo bello, poiché sarà sfaldato. 150 grammi di ceci già cotti. Mezza cipolla, basilico, peperoncino, olio evo. Per la pasta trovo insuperabili delle grosse conchiglie o le mezze maniche perché arriveranno a contenere ceci, pezzetti di baccalà e sugo, quindi faccio quelli quando cucino in famiglia. Per il Paladar e le cene trovo queste paste un po’ troppo domestiche e allora faccio i mezzipaccheri o paccheri.
Procedimento. Faccio soffriggere la cipolla a fuoco tenue fino a farla diventare traslucida, poi appoggio i pezzi di baccalà sul fondo e li faccio cuocere un paio di minuti per lato, quindi li tolgo dalla casseruola e aggiungo prima i pelati, dopo circa 25 minuti i datterini in scatola e al compimento dell’ora i datterini (li trovo più carnosi) o ciliegini freschi. A partire da questi faccio andare un’altra mezzora, quindi passo tutto il sugo al minipimer prima nella pentola, poi attraverso un colino cinese immergendo il minipimer anche al suo interno. Quella che lentamente ne esce è una meravigliosa vellutata, mentre nel colino resterà un pugno di bucce e semini. Rimetto questo sugo nella casseruola originaria e faccio andare a fuoco molto basso, aggiungo quindi i ceci, le scaglie di baccalà che avrò ottenuto pulendo i due tranci e dopo cinque minuti spengo, assaggio e in funzione del contributo dato dal baccalà regolo di sale. Infine aggiungo un po’ di peperoncino macinato e un ciuffo abbondante di basilico. Va bene se riposa almeno una ventina di minuti.
La pasta una volta cotta deve essere saltata brevemente con l’aggiunta, col mestolo, di una quantità molto abbondante di questo sugo.
Insalata di puntarelle e acciughe. Ingredienti: un cespo di catalogna spigata, otto belle acciughe sott’olio, due cucchiai di colatura di alici di cetara, olio evo, aceto di vino delicato o di mele, sale.
Procedimento. “Semplice da fare, semplice da sbagliare. Una volta mio padre dal Bolognese rimandò indietro l’insalata di puntarelle perché era stata appena condita”, mi ha detto una volta Eleonora a cui devo alcuni dei miei piatti forti della cucina romana. Per quest’insalata ci ho però messo qualche esperienza mia: taglio in due i germogli della catalogna spigata, quindi con un coltellino leggermente ricurvo riduco le due parti in striscioline sottili che immergo in acqua fredda con l’aggiunta di un po’ di aceto per evitare l’ossidazione e stanno così almeno un’ora. Preparo quindi un’emulsione di olio, colatura di alici di cetara (ma vista consigliare, ma io lo faccio), aceto e sale. Circa due ore prima di servirle condisco le puntarelle che saranno state asciugate centrifugandole, regolo di sale e ripongo in frigo. Prima di servire aggiungo i filetti di acciuga a temperatura ambiente e faccio stemperare per almeno un quarto d’ora.
A pagare in cucina è venuta Vera, “grazie della serata”, ha detto. “E’ stata una sorpresa di Aniello. Non sapevo saremmo usciti a cena stasera, non sapevo nemmeno esistesse una cosa come Chinese Whispers e il Paladar Marconi. Una stramberia a dirla così”. Le ho risposto senza convinzione, per la cortesia che devo a chi tiene vivo il mio gioco, anche se mi chiedevo perchè la gente non mangiasse e basta. “Ci consideriamo protettori della realtà, delle cose che così sono perchè così servono, è per questo che non usiamo internet, che ci facciamo pagare in base a spese e buoncuore, accogliamo i viaggiatori che vogliono uscire dai circuiti accessibili dell’internazionalità…” Vera mi ha interrotto subito, lei era curiosa davvero, ma del senso ultimo, “e il tornaconto? In cosa sta?”. “Boh!” Dico io, “Ognuno credo abbia il suo. Per me forse che da cosa nasce cosa e prima o poi qualcosa potrebbe essere la cosa giusta. E intanto evito di perdermi nel nulla degli anni che passano.” E dopo un’attimo di sospensione che mi è piaciuto imporle, ho cambiato gioco, “in oqni caso per la cena ho speso 43,15 euro che possiamo arrotondare a 47 per un po’ di spese generali. Cose tipo olio, aceto, condimenti eccetera. In dettaglio 12 euro i gamberi, 10,5 di verdura per carciofi, pomodoro, datterini, basilico e puntarelle e zenzero, 2,2 euro di scamorza, 2,55 euro per pelati e datterini pelati, 1,5 euro di ceci biologici, 8,5 euro per il baccalà, 1,9 per mezzo pacco di pasta, 2 euro di acciughe e 2 di acqua. Di vino non ne ne avete voluto.”
“Che bel modo di vedere le cose”, ha detto Vera porgendomi due pezzi da 50 euro.
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