Cibo
Incontri ravvicinati. Zucca densa, Pesce spada al piatto, Radicchio piccante
Un attimo prima che suonassero alla porta, il pomeriggio della domenica d’inverno era destinato solo a dilatarsi ancora, ritmato dai rumori ovattati interni al condominio e dal ronzio remoto di qualche motore che passava in strada. Non ricordo di avere immaginato nulla sentendo il campanello. Mentre mi alzavo per andare a vedere, suppongo di avere pensato a uno di quei ragazzi gentili che vendono Lotta Comunista porta a porta, gli unici che si presentano inattesi di domenica. Li ascolto con cortesia e di solito dò loro 5 euro “per simpatia ma anche per tenervi il giornale”; e quando, benché grati, si lamentano della mia indifferenza ai contenuti della causa, sottolineo, che io “ho fatto ancora in tempo a mettere la X su una scheda elettorale con scritto PCI”. Con questo sistema di attese scontate, senza spazio per lo stupore, mi sono avvicinato all’ingresso scivolando scalzo lungo il corridoio e per non essere sentito ho appoggiato l’occhio allo spioncino trattenendo il respiro: faccio sempre così per darmi la possibilità fino all’ultimo di simulare l’assenza. Cosa che peraltro non ho mai fatto.
Circondata dall’ombra del pianerottolo, col viso distorto dal fish eye della lente, invece di una faccia giovane rivolta diritta verso di me, c’era il volto di profilo di una donna adulta e dall’aria rassicurante, anche se avvertivo qualcosa di indefinitamente strano nel sistema della sua posizione e distanza dalla porta. Avrei poi scoperto, riguardandola molte volte nei giorni a venire, che era per la postura squilibrata dovuta alle stampelle e al fatto che quando da ferma ci si appoggiava, protesa in avanti, le veniva naturale alzare la testa e voltarla verso destra, come per cercare chissà quale equilibrio. Le ho aperto.
“Ciao, sono Virginia. Ci siamo sentiti qualche settimana fa. Prima della mia seconda operazione,” ha detto indicando con un cenno della testa il piede destro contenuto in una di quelle scarpe ortopediche fatte per appoggiare solo il tallone. “Ricordi? Ti avevo scritto per chiederti la ricetta della Giardiniera (si veda qui), l’ho fatta: i peperoni immangiabili, i fagiolini inutili, ma i cavoli buoni.“ Nonostante la battuta che trovavo simpatica e pertinente, ero bloccato da uno stupore ritroso, che poteva far pensare fossi seccato; in realtà mi stavo istintivamente proteggendo dalla sorpresa, non difendendo da lei. “Ciao, non ti aspettavo” le ho quindi detto troppo freddamente. Credo avessi bisogno di tempo per riemergere dallo stato in cui ero scivolato quel giorno, facendo casualmente solo cose adatte a sospendere l’esistenza, tipo ascoltare frammenti di Enrico Vaime; stare seduto in cucina davanti al podcast de “Il Giudizio Universale”; guardare serie tv dove si spara tanto; riordinare appunti di cucina su Note; aprire “I divini mondani” a una pagine qualunque e studiarne per trenta secondi ritmo e punteggiatura… E ora alle 16.40, dopo tutta quella discesa, semplicemente non ero immediatamente pronto, disponibile. Mi ha aiutato ancora lei, con un altro, preciso passo nel nostro ristrettissimo terreno comune di sconosciuti; evidentemente intenzionata a verificare se la mia fosse solo timidezza, sorpresa o anche avversità, “hai detto tu di non scrivere più lettere e non avendo il tuo numero di telefono non avevo alternative, quindi eccomi qui.” Sempre un po’ rigido, ma già più rilassato ho cominciato a giocare la sua stessa partita. “Sai di dire una bugia! Io ho detto che non avrei risposto ad altre lettere, non ho detto di non scriverne, non ho detto telefonami, non ho detto passa all’improvviso, ho solo detto che per le questioni del Paladar rispondo unicamente alle email. Non che non abbia il gusto per il vintage, ma altrimenti non riuscirei più a occuparmene. Giacché però sei qua e mi sentirei in colpa a mandarti via in queste condizioni, entra che ti offro un tè e due biscotti di soia.” Ha sorriso, “Biscotti di Soia? Buoni, li fai tu?” “No, ne ho comprato un pacchetto ieri pomeriggio al bar dell’aeroporto e da offrire col tè ho solo quelli e del pane ancora surgelato.”
Entrata in casa Virginia ha percorso il corridoio senza fermarsi, ne voltarsi a guardare nelle stanze e si è diretta in sala, dove con evidente sollievo si è seduta sul divano, ha incolonnato senza chiedere 4 cuscini e ci ha appoggiato la gamba distesa in avanti. Evidentemente non interessata al tè, ha cominciato a raccontare, animata, mi pareva, più dal lasciarsi andare nel parlare di sé a un estraneo, che non dal desiderio di scoprire quanto io avrei potuto a mia volta dirle. Credo in certi casi, quando c’è curiosità o attrazione, di essere un buon conversatore a due; quando il racconto è personale ascolto volentieri, senza secondi fini e non penso mai che quella tal cosa che ho appena sentito me ne ricorda una con cui interrompere il mio interlocutore, tanto per partecipare, darmi senso, essere all’altezza. Io taccio e guardo. Giovanna anni prima mi ha detto che questo è semplicemente l’atteggiamento naturale del predatore. E quando ho replicato che non era mai mia intenzione, lei ha ribadito, “appunto, atteggiamento naturale.” Una frase che suonò bene quando me la disse la prima volta, anche se oggi non saprei come intenderla; ho sempre faticato a distinguere gli insulti dai complimenti di Giovanna. In quella prima mezz’ora con Virginia, però, non mi stavo chiedendo cosa fosse a mettermi in quella condizione di ascolto: curiosità o attrazione? Lei intanto parlava del suo terzo mese da convalescente, delle due operazioni agli alluci, del dolore, della noia, dell’immobilità e della solitudine che scavava percorsi inattesi. Mi ha raccontato dei suoi 47 anni e del fidanzato che l’aveva lasciata poco più di due anni prima, lui la definiva una donna resistente, non forte; e diceva che questo la rendeva l’approdo di tutti quelli che avevano qualcosa da appoggiare o scaricare, ma inadatta a chiunque avesse da chiedere e condividere. Lei aveva cominciato a dargli ragione già negli ultimi mesi della loro relazione, quando ormai era troppo tardi per tutto, e oggi gliene dava ancora di più. Fino a quando era stata bene, però, era come se la baraonda delle giornate, tra telefonate, like, richieste, confidenze, inviti a pranzo, consigli, aperitivi, messaggi, condivisioni, rendessero legittima, anzi necessaria la sua partecipazione a questo mondo, a questa vita. Non si chiedeva chi stesse dove e perché: non analizzava, non concettualizzava, non giudicava. Le bastava solo trovare un lembo, un’estremità a cui collegarsi per partecipare alle cose che succedevano nel suo sopravvalutato – parole sue – microcosmo.
Non appena indebolita dalle condizioni di salute, e quindi incapace di esserci, reggere, ascoltare e fare da sponda, aveva visto gli amichevoli scaricatori – maschi e femmine – dileguarsi, qualcuno anche con la sfacciataggine di darle appuntamento a dopo qualche mese. Quando tutto sarebbe passato. C’è perfino il caso di un paio di persone che si sono sentite tradite dalla sua presenza meno immediata. “E io nel frattempo? Non ho proprio lasciato segni? Non manca a nessuno il mio non chiedere loro mai niente?” Mi aveva detto a un certo punto. “Certo, non sto morendo, ma due interventi chirurgici, il secondo a due mesi dal primo, il dolore di cui sanno tutti, l’impossibilità di camminare, guidare, uscire non mi giustificano abbastanza?” Poi però aveva scoperto il gruppo delle persone della sua specie, ma meno ambiziose, gente che c’era sempre stata senza mai imporsi, elementi di raccordo fino ad allora poco interessanti, resi invisibili dalla sua distrazione veloce che però nello stato di questi mesi avevano trovato una finestra per introdursi con gentilezza nella sua vita. Non era amareggiata, arrabbiata, né gratificata mentre raccontava degli uni e degli altri. Era solo perplessa come di chi non abituato a valutare per giudicare, si trova all’improvviso costretto a farlo, esplorando così un mondo completamente nuovo, quello di una personalissima morale dei rapporti interpersonali. Di cosa è giusto e cosa è sbagliato, desiderabile o indifferente per la sua persona.
Erano passate le cinque, la luce blu del tardo pomeriggio aveva invaso la casa ormai completamente raggiunta dall’ombra del condominio di fronte. Lei aveva continuato a parlare guardando fissa davanti a sé verso la libreria, la gamba diritta, appoggiata e ferma sui cuscini, la obbligava in una posizione che non le permetteva di girare la testa se non per alcuni momenti. Io, invece, seduto di traverso all’estremo opposto del divano, guardavo il suo profilo. “Gerineldo, scusa se te lo chiedo”, ha detto Virginia a un certo punto, “ho bisogno di stendermi, il piede si gonfia, fa male e devo sollevarlo a un’altezza superiore al corpo; è una questione di circolazione.” “Dove posso metterti?”, le ho chiesto. “Sul letto, sdraiata. Con questi stessi quattro cuscini sotto la gamba, così le spalle e il busto saranno più in basso rispetto al piede. Come detto è una questione di afflusso e deflusso del sangue.” E così ho fatto. Poi lei, che a quel punto era supina, con un paio di colpi leggeri del palmo, mi ha invitato a distendermi al suo fianco, “vieni che parliamo ancora un po’ da qui.” E così abbiamo passato un’altra mezz’ora nell’ombra densissima del crepuscolo, a raccontarci cose con le voci nasali di chi è sdraiato. Ora si parlava entrambi, solo considerazioni, fatterelli sconnessi, frammenti pensati e vissuti. Mi ha chiesto perché cucinavo così tanto, le ho detto che una volta avevo trovato una risposta intelligente, purtroppo non me la ero segnata e in quel momento non la ricordavo. Le ho raccontato del sabato del giorno prima a Roma e dell’incontro con John Malkovich nella lounge Alitalia, in cui mi ero infilato al seguito di un conoscente che aveva le tessere giuste. Entrambi abbiamo elogiato la spesa online senza la quale la sua condizione di reclusa al quinto piano sarebbe stata insostenibile. Io ho suggerito per la vita pratica e le emergenze di prendere in considerazione anche i surgelati: ovviamente solo i prodotti crudi, principalmente le verdure e secondo me qualcosa di pesce tipo seppie, calamari e volendo anche il baccalà. Lei guardando i suoi pantaloni felpati, ha riso considerando che in 47 anni non ricordava di avere mai posseduto una tuta prima di allora. Io le ho detto di quando dodici anni fa avevo comprato questo appartamento chiedendo a chi lo vendeva di lasciarmi la poltrona di legno bianco e il lampadario degli anni 70 in cui ci stavamo specchiando. Poi sempre così, siamo scivolati dentro all’atmosfera che senza preordinazione avevamo costruito ed è successo l’inevitabile.
Quando ho riaperto gli occhi, erano le sette e un quarto, Virginia forse dormiva, le spalle scoperte e la gamba nuda sui cuscini. Senza spostarmi ho acceso la musica dall’iPhone, ancora collegato al diffusore appoggiato in cucina. Attraverso il corridoio Starbrite di Duke Jordan diventava la colonna sonora di un momento a cui la meraviglia dell’amore aveva conferito la pericolosa precarietà della perfezione. Guardavo per aria quando ho sentito la sua voce, un sussurro vellutato, “Gerineldo, finalmente veniamo al dunque: io ho fame. Mi faresti qualcosa da mangiare? Qualcosa che si prepara in fretta e si mangia lentamente.”
Per qualche minuto ho provato a ricordare quanto avevo in frigo o cosa avrei potuto scongelare in poco tempo, quindi ho proposto “un menù composto da tre piatti leggeri, da mangiare in successione per non forzarne l’inconciliabilità. Dovrei avere della zucca già tagliata, da preparare con qualche accorgimento per correggerne la monotonia. Poi del pesce spada per il gusto pervasivo ed elegante, dovuto al tipo di cottura e al condimento che ho in mente. E per ultimo un assaggio di radicchio tardivo amarognolo e piccante. Credo che in quarantacinque minuti riusciremo a mangiare.”
Zucca Densa. Ingredienti (per quattro). 1 kg di zucca (preferibilmente mantovana), 2 scalogni, olio EVO deciso (tipo pugliese), 1/2 cucchiaino di semi di cardamomo battuti nel mortaio, 1 cucchiaio di semi di zucca, peperoncino.
Procedimento. In una padella dal bordo alto stufare lo scalogno: cioè farlo prima imbiondire nell’olio, quindi aggiungere i semi di cardamomo, pochissima acqua e farla evaporare. Ci vorranno circa 10 minuti. Quindi a fuoco basso mettere nella stessa padella la zucca tagliata a cubetti non troppo grandi, aggiungere un filo di acqua (per filo intendo pochissima, nell’ordine del paio di cucchiai, la ricetta è basata sull’assenza di liquidi), coprire e fare ammorbidire girando spesso. Dopo circa mezz’ora sarà cotta e morbida. A questo punto va messa in un contenitore adatto e ridotta in crema densa con un qualsiasi frullatore a immersione. Intanto in una padella antiaderente tostare molto bene i semi di zucca.
Servizio. La zucca si può preparare con tutto l’anticipo necessario. Se si raffredda (o anche venisse conservata in frigo) basterà passarla nel microonde. La crema densa va servita tiepida in una ciotola o in un piatto fondo da cui ciascuno la preleverà col cucchiaio. Al momento di servire, sulla crema si gratta il peperoncino (sarà uno spettacolare contrappunto al dolce della zucca, reso interessante dallo scalogno e aromatizzato dal cardamomo) e da ultimo si distribuiscono i semi di zucca molto tostati e un abbondante goccio di olio EVO piuttosto forte.
Pesce spada al piatto (per due). Premessa: è il trionfo della delicatezza, del profumo e delle morbidezza. Può essere accompagnato a patate necessariamente cotte al vapore e condite col liquido che rilascia il pesce. O anche a niente quando come nel mio caso c’è qualcosa da mangiare prima e dopo.
Ingredienti. 2 fette di pesce spada non eccessivamente spesse, pepe verde appena macinato (non troppo fine) o meglio pestato nel mortaio, timo, bacche di pepe rosa, sale grosso, olio EVO.
Procedimento. Distribuire i granelli di sale, il pepe e il timo su entrambe le parti del pesce. Disporre le fette su un piatto piano molto largo (io ne utilizzo uno dal diametro di circa 26 cm), distribuire per ultime e su un lato solo poche bacche di pepe rosa e passare a filo l’olio sulle fette. Il piatto deve essere sovrapposto a una pentola di circa di pari diametro, nella quale sarà stata portata ad ebollizione l’acqua. Il principio è che il vapore scalda il piatto, il calore cuoce il pesce: ci vorranno circa 10 minuti per lato, durante i quali prelevare di tanto in tanto, un po’ del liquido dal piatto e distribuirlo sul pesce che sta cuocendo.
Avvertenza. Va servito appena pronto, caldissimo. Può essere surgelato a mo’ di cibo pronto, non ne risente particolarmente. Attenzione a non sollevare il piatto caldo dalla pentola: il problema non è il suo calore, ma il vapore rovente che esce da sotto. Io di solito prendo il pesce con una spatola e il liquido col cucchiaio. Il piatto lo sposto dopo almeno mezz’ora.
Radicchio tardivo piccante. Ingredienti per quattro. 2 teste di radicchio, ½ peperoncino, 1 spicchio di aglio, Olio EVO, sale.
Procedimento. Schiacciare l’aglio, farlo imbiondire con il peperoncino nell’olio sfrigolante, evitando di bruciare l’uno o l’altro. Aggiungere il radicchio lavato e sommariamente asciugato, il sale e coprire per 5/8 minuti, quindi scoprire e fare andare ancora qualche minuto fino a quando sarà morbido, ma ancora consistente. Va servito molto caldo.
Devi fare login per commentare
Accedi