Cibo

No, non è vero che il formaggio fa venire il cancro

22 Agosto 2015

I formaggi so’ piezz’e core. Quel che si presumeva, adesso è una certezza: la mucca felice fa il formaggio buono. Lo dimostra uno studio della Fondazione Mach, di San Michele all’Adige, in provincia di Trento, condotto il collaborazione con l’Università di Padova. Di norma il latte proveniente da vari animali viene mescolato prima della caseificazione. In questo caso, invece, il latte di centocinquanta vacche di razza bruna allevate in trenta diverse stalle trentine, è stato tenuto separato e si è confezionata una forma di formaggio per ognuna delle vacche che partecipavano all’esperimento. Insomma, fatte le debite proporzioni, si è adattato al formaggio quello che per il vino è il cru o per il whisky il single malt.

Dopodiché le forme sono state analizzate dai tecnici della Fondazione Mach e sono emersi risultati sorprendenti: il formaggio di ogni forma aveva caratteristiche diverse. Si era tenuto conto della storia di ogni animale: età, numero di parti, stadio di lattazione, quantità di latte prodotto. Ma sono entrate in gioco anche le caratteristiche delle aziende: dimensione, tipologia di strutture, modalità di gestione e alimentazione. I risultati sono stati pubblicati nella rivista scientifica più importante del settore, il “Journal of Dairy Science”, e l’articolo che li illustra è entrato nella graduatoria dei cinque lavori più letti.

Tutto questo è fondamentale per migliorare la tracciabilità del prodotto, ma lascia anche intravedere un futuro in cui ci saranno una sorta di formaggi «gran riserva» prodotti dalla singola mucca, così si potrà scegliere se si vuole il formaggio della vacca Bettina allevata da Bepi, o della vacca Pina della stalla di Toni.

Tutto questo giunge in un momento in cui il formaggio sembra essere sotto attacco per una molteplicità di fattori. Qualche settimana fa si è diffusa la bufala del formaggio senza latte: la solita proterva Unione Europea obbligherebbe i bravi caseifici italiani a produrre formaggio con il latte in polvere. In realtà le cose non stanno così. Intanto non c’è alcun obbligo: si potrà utilizzare latte in polvere, se si vorrà. Ma le Dop del formaggio italiano – le prime tre in ordine di importanza sono parmigiano-reggiano, gorgonzola, mozzarella di bufala campana – continueranno a usare soltanto latte fresco, come previsto dai loro disciplinari.

In secondo luogo, l’adeguamento dell’Italia a questa norma, già prevista per altri paesi europei, è stato chiesto da un europarlamentare italiano, il piemontese Oreste Rossi, eletto nella Lega Nord e poi passato tra le fila di Forza Italia. Nessun «ce lo impone l’Europa», quindi. Questi, che si definisce imprenditore agricolo, ha giustificato la mossa affermando che in tal modo i caseifici italiani non saranno più svantaggiati rispetto a quelli dell’Europa settentrionale, che già possono usare il latte in polvere. Resta da vedere se usare il latte in polvere per la caseificazione sia un vantaggio o uno svantaggio e se l’Italia debba puntare alla produzione di qualità, possibilmente di alta qualità, o a quella di massa dei formaggi dalla consistenza simile alla plastica che furoreggiano nella grande distribuzione e negli hard discount.

Il formaggio va venire il cancro? È questo un punto assai controverso che risuona come un tam tam qua e là per la rete. La tesi è sostenuta da un libro, “China Study”, che ha un grande successo e sta diventando un punto di riferimento per i vegani, anche in Italia. L’autore, T. Colin Campbell, è un ottantenne biochimico, già nutrizionista personale di Bill Clinton, che dopo aver trascorso una vita a mangiare carne e latticini ora scatena contro di essi tutto lo zelo dei convertiti. Campbell ha basato il suo studio sulle popolazioni della Cina rurale dove, peraltro, i derivati del latte sono sconosciuti. Se invece avesse studiato, poniamo, i Masai del Kenya, avrebbe scoperto che bevono litri di latte al giorno e proprio per questo sono ritenuti indenni da molte malattie e da colesterolo alto. Per quanto riguarda noi, figli del bacino del Mediterraneo, alleviamo pecore e capre da 12 mila anni e consumiamo latticini da ben prima del farro e dell’orzo, alimenti tipici di etruschi e romani, la cui civiltà è iniziata tremila anni fa. Ovviamente il latte veniva subito trasformato in ricotta e formaggio, vista l’impossibilità di conservarlo così come si trova (l’usanza di bere latte, invece, è molto tarda: soltanto ottocentesca).

Quindi mangiamo formaggio da millenni e la nostra salute non sembra esser stata più di tanto compromessa. Non solo. Recenti studi hanno dimostrato che i derivati del latte in una dieta ipocalorica addirittura favoriscono la perdita di peso. Spiega Nico Valerio, studioso e scrittore scientifico: «Il latte è da sempre un alimento protettivo della salute dell’uomo, e oggi gli studi più universalmente accettati lo collegano a minori rischi di malattie cardiovascolari, compresa l’ipertensione, diabete e molti tipi di tumori, tra cui quello al colon. Basti dire che il suo acido grasso butirrico è il miglior nutrimento dei colonociti, le cellule del colon, cui assicura salute e funzionalità.

Non è vero che il latte aumenta i rischi di tumori, come sostiene per motivi ideologici il chimico Campbell in “The China Study”. Anzi, li riduce. Nell’esperimento principale, che risale a oltre trent’anni fa, e non è stato accettato dalla scienza, Campbell ha usato non il latte ma la proteina caseina data ad animali o messa a contatto con cellule. Insomma, niente a che fare col vero latte e con l’alimentazione umana. Del resto, latte, latticini e formaggi non sono cibi nuovi o poco noti, ma tra i primi cibi “elettivi” della storia dell’umanità, lungamente provati, diffusi già oltre 10 mila anni fa: la nostra società nasce con la pastorizia. Ed era tale l’uso, specialmente in Europa, che a settemila anni fa risale la trasmissibilità genetica ai discendenti dell’enzima lattasi, che digerisce il lattosio.

Ma più che il latte, troppo deperibile, sono stati latticini, ricotte e formaggi a dare un grande contributo nutrizionale in secoli in cui l’alimentazione popolare era sempre troppo scarsa di proteine complete e calcio. Nella Roma antica, le pietanze tradizionali erano a base di ricotta o latticini (puls fitilla o miglio cotto nel latte, libum o pane votivo al formaggio, moretum o formaggio spalmabile alle erbe, placenta o timballo di lasagne con ricotta). È confermato che i latticini rafforzano le ossa per l’abbondanza e alta assimilabilità del calcio in buon rapporto col magnesio. Non i latticini, ma l’eccesso di proteine nella dieta – facile solo in chi mangia molta carne – può impoverire di calcio le ossa. Di recente i latticini, specialmente la ricotta (che non si ricava dal latte, ma dal siero avanzato dalla preparazione del formaggio) sono stati usati con successo perfino nelle diete ipocaloriche per diabetici e obesi, non solo perché la proteina del siero (alfa-lattoalbumina) è la più completa e quindi assimilabile dopo quelle dell’uovo, ma anche perché è la più efficace nella riduzione dell’appetito».

Possiamo quindi mangiare tranquillamente formaggio, e quando arriveranno i formaggi tracciati, “firmati” dalla singola vacca perché confezionati soltanto con il suo latte, senza mescolarlo a quello di altre, raggiungeremo vette ancora più alte nell’apprezzare questo alimento, in Occidente antico quanto l’uomo.

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