Cibo
Il Ghisallo, il Buttafuoco, una latteria sociale e la regina del Belgio
Al Giro vedo gente, faccio cose. Ieri, ad esempio, secondo giorno di riposo prima dell’ultima, decisiva settimana, al Museo del ciclismo Madonna del Ghisallo, e dintorni, ho infilato una bella sequenza di incontri improvvisati.
Il Museo galleggiava nelle nuvole tardo autunnali di questa fine maggio. Non fosse stato per i monumenti ai miti del ciclismo sul piazzale, quello del Fausto – opera uno scultore particolare, Paolo Todeschini, già giocatore e allenatore sulla panchina del Milan e della Nazionale Olimpica a Roma 1960 – , quello del Gino e il recentissimo busto dedicato a Fiorenzo Magni, avresti potuto dire di essere al Siccomario, un giorno di metà novembre.
Nel Museo si celebrava una di quelle occasioni in cui il Giro d’Italia contribuisce, da oltre cent’anni, a “fare l’Italia”. Cioè a mettere insieme i pezzi di quello che Gianni Brera diceva essere “un lungo e scombiccherato Paese”, oggi ancora più scombiccherato del normale, se il suo primo partito politico, nato come antifascista, federalista e antimeridionalista, e anche un po’ anticlericale, vince a man bassa le elezioni pescando a strascico voti in Sicilia e Calabria, facendo comizi dal balcone di Predappio, baciando il rosario e scambiando la mitologia dell’acqua padana da Obelix con la Beata Maria Vergine.
Al cospetto invece della Madonna del Ghisallo, patrona dei ciclisti dal 1949 per decreto di Pio XII, e da quasi sempre benedicente gli scalatori, professionisti e della domenica, che salgono dal lago o dalla Valassina le pendenze del passo più lombardo che c’è, si è parlato di Oltrepò Pavese e dei suoi vini.
Quest’anno una macchina del Consorzio Vini Oltrepò, inserita nella Carovana pubblicitaria del Giro, sta facendo conoscere agli italiani i vini dell’Oltrepò Pavese. L’Oltrepò, anche se può essere che non se lo ricordi, vanta il primato di essere stato a fine Ottocento il primo territorio vitivinicolo a importare le barbatelle di Pinot dalla Borgogna e di aver inaugurato nel nostro paese la tradizione della spumantizzazione del vino, tanto da meritarsi per un po’ di tempo il soprannome di Sciampagna d’Italia.
Ma l’Oltrepò vanta anche un altro primato: quello di avere tenuto a battesimo un giovane vittorioso Fausto Coppi nel maggio di settant’anni fa. Il 7 maggio del 1939, Coppi, non ancora ventenne, vinceva a mani basse il Circuito di Varzi, capitale montana dell’Oltrepò, staccando tutti sulle rampe della salita di Pietragavina. Secondo arrivato: Malabrocca Luigi, altro tortonese di successo nonché gran bel corridore, ma che, come cantano i Fioeu d’la Nèbia – nome quanto mai in tono col meteo di questi giorni – , gruppo cult della musica d’autore pavese, a quella rosa avrebbe poi sempre preferito la maglia nera.
Tre settimane dopo, sempre nel maggio 1939, il Faustino venne raccomandato da una memorabile lettera inviata da Biagio Cavanna all’amico Giovanni Rossignoli, detto Baslòt, ex campione dei primi decenni del Novecento , e organizzatore della Coppa Città di Pavia. La lettera, presentando due suoi pupilli, diceva più o meno così: “L’Isidoro Bergaglio – che era l’altro corridore novese iscritto – farà quel che potrà. Fausto Coppi vincerà il primo premio. Guarda se non ti sembra identico a Binda”. Il pronostico dell’Orbo di Novi fu clamorosamente azzeccato. Coppi fece il vuoto sulla rampa di Canneto Pavese, il più settentrionale lembo di Appennino, e s’involò in solitaria sul traguardo in Lungoticino a Pavia.
Sullo sperone calcareo di Canneto, che come una prua di una nave punta verso la pianura, si coltivano le uve di due storici rossi oltre padani: il Buttafuoco, che prende il nome da una vigna talmente esposta al sole da sembrare un incendio; e il Barbacarlo, prodotto ancora oggi in esclusiva da un fraterno amico di Gianni Brera, Lino Maga, novantenne filosofico vignaiolo in quel di Broni.
Il Giôann, dalla sua Pianariva – la letteraria trasposizione della natia San Zenone al Po – guardava alle vicine colline e scriveva questo: “Guardo ogni volta commosso le colline pavesi, che sono il mio dolce orizzonte di pampini. La terra padana si ondula come un immenso mare sfrangiato in profili per me familiari fin dall’infanzia. Le onde sono di intenso verde e via via si fanno violette azzurre celesti fino a confondersi, appunto, con il cielo. La Rocca di Stradella è una frondosa prua, un cassero, un’altana affacciata alla valle. Occhieggia oltre la Rocca il costone di Canneto. Si stempera in fondali più azzurri la cresta di Montalto…”.
A Pavia andava in fuga in bicicletta anche Emilio Bianchi. Del Museo del Ghisallo, l’Emilio, classe 1926, è uno dei genii loci. A Magreglio ci è arrivato un po’ per caso, da Milano, perché sua moglie è di qui e in una casa del paese si sono trasferiti a vivere da quando è andato in pensione. Al Museo lo trovi quasi sempre con sottobraccio un grande album, pieno di foto e di firme, che contengono quasi tutta la sua vita. Dopo, aver scambiato quattro chiacchiere – difficile non dagli retta – ti chiede gentilmente di lasciare una firma sul librone. Milanese del quartiere Ticinese, Emilio da bambino faceva il tifo già per Guerra, e poi per Gepin Olmo. Quando ci fu da scegliere tra Bartali e Coppi scelse Fausto. Non mancava mai una partenza della Milano-Sanremo, alla Conca Fallata, praticamente dietro casa, la Chiesa Rossa. Quando scoppiò la guerra era un ragazzino: sedici anni quando iniziarono i primi bombardamenti su Milano. La bicicletta, una bicicletta da donna, lo faceva sfollare a sud, lungo il Naviglio, proprio sulla strada della Sanremo. A Pavia si rifugiava dai nonni e dagli zii. A diciott’anni scampò alla leva forzata della Repubblica di Salò; ma poi, per un equivoco dice, per poco a non fargli la pelle non furono i partigiani. Finita la guerra iniziò a lavorare come artigiano pellettiere. Poi, siccome da ragazzino per andare a lavorare, dice, passava tutti i giorni dalle parte di Brera, il quartiere degli artisti, è diventato amico di alcuni di loro e nel 1970 ha aperto una galleria d’arte sui Navigli. Lo scultore Franco Zazzeri, che negli anni Settanta era un giovane artista ospitato e valorizzato dal gallerista-pellettiere Bianchi, non si è mai dimenticato di quella lontana amicizia e ha regalato al Museo del Ghisallo il busto di Magni che accoglie i visitatori all’ingresso. Arte, bicicletta, Milano anni Settanta: quando un artigiano pellettiere poteva permettersi l’hobby di dedicarsi, per passione, a una galleria d’arte. Sembra un’altra era.
Al Museo, la degustazione dei vini dell’Oltrepò si accompagna all’assaggio di formaggi locali. Sono offerti dalla Latteria Sociale Valtellina di Delebio: Casera e Bitto, Scimudin e Piattone, e poi i formaggi di Bellagio, tra cui un morbido Ghisallo, a forma di ruota. A raccontare queste bontà ci pensa Domenico Rossotti, valtellinese. Diventato casaro per desiderio di una bicicletta. Aveva finito le scuole elementari quando trentacinque anni fa convinse i genitori, un operaio e una contadina con un paio di mucche da accudire, a lasciarlo partire per fare la stagione in alpeggio, ottanta giorni, dalla metà di giugno, al termine della scuola, alla fine di agosto. Il motivo? Avere i soldi per comprarsi una saltafoss, l’antesignana delle bmx di oggi. I genitori non erano felicissimi del progetto, ma dissero di sì, pensando in cuor loro che l’esperienza, troppo dura per un ragazzino di 11 anni, sarebbe durata pochi giorni. Invece Domenico di stagioni in alpeggio ne fece sette e, dopo una parentesi a costruire barche a vela in un cantiere, è tornato a occuparsi di formaggio e ora è rappresentante commerciale della Latteria Sociale. La cooperativa tra Valtellina, Valchiavenna , Alto Lario e Bellagio unisce 110 soci allevatori per 35 milioni di latte di montagna l’anno raccolto 3 milioni e 200 mila chili di formaggio e burro prodotti l’anno e 452 famiglie coinvolte nelle attività cooperative. Un bel modo per dare valore, attraverso un lavoro collettivo e appassionato, soprattutto condiviso, a un territorio e alle sue tradizioni che fanno economia e vita sociale.
Tra un Pinot nero e una bollicina oltrepadana, un assaggio di bitto e uno di Ghisallo, ho chiacchierato con due turisti francofoni: arrivavano dal Belgio, per la precisione da Rochefort, cittadina della provincia vallona di Namur. Sopra le nostre teste una gigantografia di un gruppo di ciclisti primi anni Settanta. Vincenzo Torriani, storico patron del Tour, stava per dare il via alla partenza di una corsa con in primo piano i campioni del pedale dell’epoca: Marino Basso in maglia di campione del mondo, Felice Gimondi con la maglia di campione italiano, Eddy Merckx in maglia Molteni. E poi Michele Dancelli (Scic), Franco Bitossi (Sammontana), Gianni Motta (Zonca), in secondo piano la faccia da ragazzino di Checco Moser. Ero molto fiero di me, per aver riconosciuto anche Giacinto Santambrogio, gregario di Felice Gimondi alla Bianchi e per me una delle mie biglie sulla spiaggia dell’Hotel Beausejour di Laigueglia, primi anni Settanta. Il signore della coppia belga, una settantina di anni circa, mi ha però rimesso subito al posto. A dito mi ha indicato tutti i nomi dei gregari di Merckx alla Molteni, per me facce ignote, ma nomi che rievocavano infinite partite a biglie o pomeriggi passati davanti alla TV per il Giro o il Tour: Bruyère e Spruyt, De Schoenmacker e Van den Bossche. Si è presentato come Noël Gregoire e mi ha spiegato essere uno più importanti collezionisti di memorabilia ciclistici in Belgio, al punto che la sua collezione è parte importante del Museo del Ciclismo di Roselaere. Mi ha raccontato che il giorno prima aveva assistito per la prima volta in Italia a una tappa del Giro d’Italia, che mi ha confessato essere la corsa che più ama, dopo ovviamente la Ronde van Vlaanderen, il Giro delle Fiandre (pur essendo vallone).
Poi, indicando una bella bionda che si trova di profilo all’estrema sinistra della gigantografia, mi ha detto in un buon italiano: “E quella è Paola?”.
“Paola chi?”.
“Paola del Belgio, la principessa!”.
Allora mi sono ricordato che quella era la foto della partenza del Giro d’Italia 1973 da Verviers, in Belgio, Giro stravinto dal Cannibale, maglia rosa dal primo all’ultimo giorno, e cinque vittorie di tappa. A dare il via a quella edizione fu proprio Paola Ruffo di Calabria, consorte di Alberto II del Belgio, fratello di re Baldovino del Belgio, e incoronato lui stesso sovrano nel 1993 alla morte di questo. Paola Ruffo di Calabria dei principi di Scilla, Palazzolo e Licodia Eubea divenne lei stessa regina del Belgio fino all’abdicazione del consorte, nel 2011, a favore del figlio Filippo.
La moglie di monsieur Gregoire, madame Clara, che parla un delizioso italiano con accento veneto – sua madre è di Sacile ed è emigrata in Belgio appena dopo la seconda guerra mondiale – lo ha poi invitato a raccontare un aneddoto sulla “regina italiana” del Belgio. Il padre di Noël lavorava come falegname presso uno dei castelli reali. Un giorno, quando Noël era poco più che adolescente, incontrò nei pressi della residenza la principessa che, vedutolo fumare, gli chiese una sigaretta. Suddito fedele, quasi onorato della richiesta, il giovane Noël le diede l’intero pacchetto. Paola prese, ringraziò e se ne andò. Noël, confessa sorridendo un po’ sornione, aspetterebbe ancora di vedere ricambiato il pacchetto, non avesse nel frattempo smesso di fumare da parecchi anni.
Fine giornata di riposo al Giro. Scendo dal Ghisallo e mi fermo a Bellagio, vista lago. Anche se non sono le stesse acque, a me il lago mi ricorda sempre Piero Chiara e i suoi romanzi, ma in particolare l’avvocato Temistocle Mario Orimbelli/Ugo Tognazzi che, in una scena de La stanza del vescovo dice: “Maffei, ma lo sa che in certi particolari momenti la tinca mi fa piangere, mi ha sempre commosso… fin da ragazzo m’inteneriva”.
Fonti
Oltrepò Pavese. L’Appennino di Lombardia, Touring Club Editore, 2018
Piero Chiara, La stanza del vescovo, Mondadori 1976
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