Cibo
Dramatis Personae. La Pasta e Patate
Da che sono diventato il principale riferimento culinario di chi mi accompagna e circonda, pasta e patate è la ricetta che si è prestata a qualsiasi cosa, con chiunque, in qualsiasi stagione. La sera al campeggio quando avevo un solo fornelletto e una sola pentola, a casa mia quando devo rallentare l’atmosfera e chiacchierare con un ospite mentre cucino, nelle case Airbnb di cui ho appena preso possesso arrivando dall’aereoporto. Ogni volta che non ho molto tempo, non so su che attrezzi contare, quali ingredienti troverò e i commensali hanno gusti diversi, come diversi possono essere quelli di uno di due anni che mangia alla stessa tavola di uno di ottanta, mi metto a cercare un po’ di pasta, che si recupera sempre, una cipolla e un paio di patate. Il resto può esserci e verrà una meraviglia, o mancare e verrà buonissima. Perché pasta e patate è principalmente un cibo dello stomaco, un fenomeno di consistenze per cui governare i liquidi è più importante che determinare sapori comunque circoscritti dai pochi ingredienti. Da circa otto anni è la ricetta che attutisce il nostro arrivo in casa di mia madre, nelle sere in cui mi metto a cucinare dopo avere attraversato mezza Europa in auto per andare a trovarla.
Per otto (se per quattro fate diviso due. Per due? Fatela per quattro e rimangiatela scaldata il giorno dopo.)
Premesse: la pentola può essere una casseruola d’acciaio. La musica Blue Mitchell, I’ll Close my eyes. Lava la testa dopo tutta quella macchina.
Ingredienti indispensabili: da cinque a sette patate medie (7/800 g), 600 grammi di pasta mista (resti di pasta), in alternativa altrettante conchiglie o mezze maniche (detti tubettoni). Una cipolla, olio e sale. Ingredienti auspicati: da due a quattro acciughe, due cucchiai di pane grattato, prezzemolo fresco tritato, pecorino e pepe verde in grani, brodo vegetale (o di pollo, leggero). In mancanza di brodo, acqua. Oppure brodo fatto con un dado di quelli bio, poco salati. Ingredienti magici: vero finocchietto selvatico (a me capita di averlo solo d’estate quando vado in vacanza nel mediterraneo e lo raccolgo ai bordi delle strade, quindi quasi mai).
Il procedimento. Faccio stufare la cipolla. Cioè prima un filo d’olio, poi la faccio imbiondire, quindi aggiungo un goccio di brodo. A fuoco basso faccio evaporare, ci vorranno almeno cinque o anche dieci minuti. Io penso che il soffritto non deve mai bruciacchiare. Nel frattempo pelo e taglio le patate. Dovranno essere ridotte in parallelepipedini potenzialmente in grado, una volta cotti e quindi smussati, di nascondersi in una mezza manica o all’interno di una conchiglia. Facciamo un centimetro e mezzo per uno. Poi torno al soffritto, ci metto le acciughe e le faccio sciogliere aiutandomi col bordo del cucchiaio di legno. Quindi unisco le patate e benché temo sia inutile, le rigiro per due minuti prima di aggiungere il pangrattato, il finocchietto selvatico (rarissimamente) e subito dopo coprire con il brodo fino a superare di un centimetro il livello delle patate stesse. Faccio sobbollire per altri due o tre minuti, quindi aggiungo la pasta, giro bene e metto altro brodo fino a coprire tutto meno che a filo. Prima precisazione: se invece di usare un solo tipo di pasta metto insieme gli avanzi di vari pacchi, li aggiungo progressivamente, tenendo conto dei tempi. Quindi prima quella che cuoce di più. Seconda precisazione: la pasta e patate va seguita perché cuoce nella sua acqua/brodo, quindi rischia di attaccarsi se non viene mossa. Il liquido si aggiunge a piccoli mestoli qualora il tutto si addensasse eccessivamente. A metà cottura assaggio la pasta e la patata e aggiungo il sale che mancasse. Va bene farlo solo ora perché prima sulla sapidità agiscono imprevedibili le acciughe e il brodo. Poco dopo spengo il fuoco, la pasta sarà oltre metà cottura, ma non ancora cotta. Le patate invece sì, e il tutto non deve essere abbondantemente brodoso, ma solo vagamente liquido (se non lo fosse metto io un po’ di brodo). Manteco con un filo di olio, aggiungo il pepe verde frantumato nel mortaio e lascio riposare dieci minuti senza scoperchiare. E’ qui che succede il miracolo, il liquido viene assorbito, la pasta finisce di cuocere, i sapori si rilassano. Poi scoperchio, rigiro, assaggio e servo in piatti fondi a cui aggiungo un po’ di prezzemolo fresco tritato. In tavola per chi lo volesse c’è il pecorino. Va bene calda, va bene tiepida e si mangia col cucchiaio.
Chi siamo? Mi chiamo Gerineldo Marconi e dal 1999 sono al centro di una serie di vicende alimentari che mi legano agli altri interpreti di questa storia che vorrei qui cominciare a raccontare. Innanzitutto Mariamedusa, mia figlia quindicenne che deve il nome al sogno notturno che sua madre Giovanna fece quando l’aspettava. Una mattina si svegliò e senz’angoscia mi disse “questa notte ho sognato che la bambina era nata e aveva la testa di Medusa. Secondo me è un’indicazione di quello che dovrà essere il suo nome”. Sono riuscito a mediare e dopo qualche giorno Giovanna ha accettato l’aggiunta del prefisso Maria, che è anche il nome di mia madre, l’unico nome di donna, insieme ad Anna, che da bambino ritenevo accettabile. In questa mia storia continua a essere importante anche Michele, il mio papà scomparso da molti anni nella malattia e morto da poco, ma che per il cibo aveva un’ossessione felice e anarchica. E che del cibo ha fatto il leitmotiv della sua nostalgia da emigrante. Io e Giovanna poi ci siamo separati e abbiamo smesso subito di fare insieme tutto quanto si fa quando separati non si è, ma abbiamo continuato ad avere a che fare con robe da mangiare. Un po’ mangiando, un po’ facendo la spesa, un po’ nutrendo la figlia. Alle vicende di questo gruppo si aggiunge Virginia, la mia fidanzata da un numero di anni compreso tra otto e dieci. Dipende come li conti o forse a chi li racconti. Veneta di nascita, bolognese per la parte di origine a cui deve le emozioni, siciliana di padre e milanese per convinzione. Un bouquet di provenienze che non le bastano nemmeno per un riso in bianco cotto al punto giusto. Virginia in cucina è solo una presenza pigra e discinta che mi distrae mentre io faccio, e Amos, suo figlio dodicenne, trascorre le ore sul divano muto e disteso a spippolare. A queste prime linee aggiungerei mia sorella Rebeca sposata all’improbabile Peter con cui vive in un paese nordico e insieme al quale amorevolmente e in maniera inconsapevole si impegna a rovinare il palato a quell’anima innocente di mio nipote Elia.
Devi fare login per commentare
Accedi