Cibo

Bacchettoni, finitela: le tradizioni si inventano e la cucina è scambista

21 Marzo 2015

Nell’amatriciana ci va l’aglio? E il burro nel pesto? Un riso diverso dal carnaroli nel risotto alla milanese? No mai! Il popolo si ribella, in rete compaiono punti esclamativi a decine, neanche fosse il blog di Beppe Grillo. Carlo Cracco mette l’aglio in camicia nel sugo, Davide Oldani invece fa il pesto con il burro e pure affiancando le noci ai pinoli. È subito insurrezione. Da Amatrice, luogo di nascita – lo dice la parola – dell’amatriciana, fanno sapere che resisteranno a ogni costo ai nuovi saraceni, quelli dell’aglio, impersonati addirittura dal celebrato chef Carlo Cracco poche settimane fa.

La Confraternita del pesto, si legge, ha «l’obiettivo di valorizzare e conservare le caratteristiche gastronomiche, tipiche, antiche e costantemente tradizionali del pesto». Burro? Neanche a parlarne. Noci? Meglio proprio di no. Da qui si potrebbe continuare: il tipico, il tradizionale, vengono fatti passare per valori immutabili della gastronomia italiana. Un altro esempio: il riso per il risotto alla milanese. Dev’essere carnaroli, ancora carnaroli, soltanto carnaroli. Sicuri? Basta riaslire indietro nel tempo con i libri di gastronomia per trovare tutto e il contrario di tutto. La prima ricetta conosciuta di pesto è quella che nel 1863 Govanni Battista Ratto pubblica nel libro “La cuciniera genovese”: il burro c’è, eccome se c’è. « Prendete uno spicchio d’aglio, basilico (baxaicö), formaggio sardo e parmigiano grattugiati e mescolati insieme e pestate il tutto in mortaio con poco burro finché sia ridotto in pasta. Scioglietelo quindi con olio fino in abbondanza».

Qualche tempo dopo, un aspirante concorrente di Ratto, tal Emanuele Rossi, dà alle stampe “La vera cuciniera genovese” dove la ricetta del pesto prevede sia la maggiorana, sia – orrore – il prezzemolo. Nelle ricette antiche si trovano spesso le noci tanto che è poi sorta la storiella – verità? Leggenda? – che  liguri abbiano cominciato a usare i pinoli perché le noci bisogna comprarle al mercato, mentre i pinoli si trovano sotto i pini, gratis (oggi non è più così: i pinoli sono diventati carissimi, tanto da esser oggetto di furto nei supermercati). Giovanni Rebora, genovese, uno dei più importanti storici italiani dell’alimentazione, in una lettera scritta poco prima della morte, si domandava: «Quanto al pesto delle famiglie: ciascuno se lo fa come può, e se può, come vuole. Se uno ci mette qualche gheriglio di noce rischia il rogo? Se ci mette la noce di burro alla fine, viene mandato in esilio? Se non ha parmigiano, oppure non trova il formaggio sardo, che deve fare?».

Naturalmente, all’affermazione di Davide Oldani, segue dibattito. Roberto Panizza, genovese, il primo ad aver commercializzato il pesto online nonché promotore e organizzatore del campionato mondiale di pesto, fa notare che Giovanni Battista Ratto era un notaio, quindi più a suo agio con gli atti che con le ricette e aggiunge: «Il significato gastronomico del burro (che metteva anche la mia mamma ) è stato superato dall’aumento delle dosi di formaggio e dalla diminuzione della quantità di aglio». Allan Bay, uno dei più noti critici gastronomici italiani, invece, osserva: «Il burro c’è e lotta con noi». Notare che nel Ponente, zona Imperia, al pesto si aggiunge un po’ di prescinsoeua, una sorta di ricotta acida locale che già a Genova risulta non pervenuta.

Storia simile per il risotto alla milanese. Chiunque, a cominciare da  Gualtiero Marchesi, milanese, ultraottantenne, padre nobile di tutti gli chef italiani, prescrive che si utilizzi il riso carnaroli. Sicuri? I puristi sono certi che questa sia la ricetta filologica? Allora leggiamo il racconto “Risotto patrio. Rècipe”, di Carlo Emilio Gadda, pubblicato per la prima volta nel 1955, e constatiamo che – sorpresa – il risotto alla milanese si faceva col vialone. Un tipo di riso che oggi a Milano è persino difficile trovare nei negozi ed è invece diventato, nella variante vialone nano, tipico del veronese e del mantovano.

«L’approntamento di un buon risotto alla milanese domanda riso di qualità, come il tipo vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo». Il singolo chicco, scrive Gadda, deve presentarsi «qua e là coperto dai residui sbrani d’una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima: cucinato a regola dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti. Il risotto paesano riesce da detti risi particolarmente squisito, ma anche il risotto alla milanese: un po’ più scuro, è vero, dopo e nonostante l’aurato battesimo dello zafferano».

Il più milanese degli scrittori dice che il più milanese dei risotti si fa col vialone. Il motivo è semplice: quando il racconto è stato scritto, il carnaroli era appena stato inventato. Tutti i risi che utilizziamo oggi sono recentissimi: il vialone nano è stato selezionato nel 1937, a Vercelli, il carnaroli nel 1945, l’arborio nel 1946. L’originario, ovvero la qualità di riso da cui dervano tutti gli altri, e proprio per questo detto originario (ha pure un altro nome: balilla) nasce nel 1924. E prima? Chissà. Le varietà di riso oggi conosciute sono state selezionate per resistere al brusone, una malattia che per circa un secolo ha devastato le risaie italiane, individuata soltanto nel 1903. Si sono innestati risi asiatici, resistenti al brusone, su quelli italiani, destinati a soccombere. Il risultato è che noi non abbiamo la più pallida idea del tipo di riso che si coltivava e mangiava in Italia prima nel Novecento

Il carnaroli è ricco di amido, resiste alla cottura meglio del vialone nano, che tende a scuocere più in fretta. I ristoratori preferiscono il carnaroli perché perdona gli errori, può riposare qualche minuto senza diventare colloso, al contrario del vialone che è stato cacciato da Milano, con gran soddisfazione dei mantovani e dei veronesi. A Isola della Scala (Vr) è stato pure fregiato della dop. Quindi a tutti quelli che professano autenticità, tradizione, intangibilità, si può semplicemente replicare con qualche vecchio ricettario. In cucina il purismo non esiste. Claudio Magris ha scritto che la purezza etnica conduce inevitabilmente al gozzo e al rachistimo. Se la purezza provoca danni tra le genti, figuriamoci tra i fornelli. La cucina è bastarda, figlia di molte madri e svariati padri. La cucina è scambista, si esalta solo con la contaminazione, con il multiforme, migliora viaggiando e incontrando l’esotico. Con buona pace dei bacchettoni.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.