Società

La parabola di Bashiru, dall’Inferno al Purgatorio

5 Agosto 2019

«Non fanno niente, sono per strada a chiacchierare», «Vivono sulle nostre spalle e si lamentano pure», «Spacciano e rubano, tolgono il lavoro agli italiani». Sono alcune delle frasi che ricorrono nelle conversazioni quotidiane, quando a un certo punto si finisce sull’argomento immigrati. Frasi ripetute talmente tante volte e da così tante persone che ormai confutarle con argomenti razionali è diventata impresa ardua. Quasi nessuno fa lo sforzo di chiedersi che storie ci sono alle spalle di quei ragazzi riuniti in gruppo, o cosa dicono parlando ad alta voce e concitati, da dove vengono, dove sono le loro famiglie, chi hanno lasciato a casa. Sono neri e questo basta a dare tutte le risposte: appunto rubano, bivaccano, spacciano, creano degrado. Semplicemente stando lì, in gruppo, a ridere o a parlare.

Per fortuna c’è ancora chi invece non si ferma al primo sguardo e vuole indagare, conoscere, capire. Come Francesca Quercia e Théo Charamond, gli autori di “Ciao Bashiru”, un documentario realizzato grazie a un crowdfunding, che ricostruisce alcuni anni di vita di un ragazzo del Ghana, arrivato in Italia per migliorare le sue condizioni economiche con il progetto di far studiare il figlio. Un “migrante economico”, quindi, che oggi è l’equivalente di “parassita che poteva starsene a casa sua”.

Ci sono vite che scorrono lente e piane, lungo binari solidi, fatte di quotidianità e tappe obbligate, tutte rispettate alla perfezione. E ce ne sono altre, invece, piene di ostacoli, retrocessioni e ripartenze. Quella di Bashiru è un’esistenza che sa di Diciannovesimo secolo, di viaggi senza ritorno, di addii e promesse non mantenute. Nel secolo in cui in otto ore di aereo si arriva dall’altra parte del mondo, ci sono ancora persone che salutano la propria madre e non sanno quando la rivedranno. Che affrontano il mare rischiando di morire, che arrivano in terra straniera e gioiscono (dice Bashiru: «Tutti gridavano e battevano le mani») in attesa di cominciare una nuova vita.

La prima accoglienza a Lampedusa, i ragazzi che si mescolano ai paesani in chiesa, le signore che li accolgono e guardano con tenerezza, come madri appunto. E poi il trasferimento a Torino («Non avevo mai visto una città così», dice ancora Bashiru) e se ne va in giro con il suo zaino per il mercato, in un paese sconosciuto, con passo incerto ma fiducioso, a migliaia di chilometri da casa, dai suoi parenti e amici. L’inquadratura è di schiena, ma si percepisce il suo spaesamento. Come non capirlo? Capita di sentirsi a disagio in mezzo a gente nuova, ma a due minuti dal proprio “noto”.

Bashiru è ottimista, pieno di buone intenzioni, incoraggia gli altri ragazzi nel centro di accoglienza: tanti giovani ammassati in piccole stanze («Ci tengono nascosti in posti dove non c’è vita»), con cibo cucinato nelle mense e messo in scatole di plastica («Ognuno dovrebbe poter scegliere cosa sia meglio mangiare per il suo benessere»). Ci sono giorni buoni, quando arriva il permesso di soggiorno per un anno, e altri bui, con il centro che sta per chiudere e la prospettiva di finire per strada. Ennesima batosta, ma Bashiru invita tutti ad unirsi e a manifestare («Non rimanere da solo a pensare», dice a un compagno). Alla fine il centro chiude e molti di loro finiscono per strada («Non so come dire, eravamo distrutti, bloccati», «Ero come un uomo morto»). La macchina da presa inquadra degli uomini neri al buio in un parco («Quando ti trovi per strada in queste condizioni e nessuno viene ad aiutarti, basta che incontri qualcuno che ti chieda di trovare dei bianchi per vendere loro la droga» « E lo fai, perché hai fame»). Anche Bashiru l’ha fatto, consapevole che non è nella sua natura, per questo chiede rivolto alla telecamera: «Dateci l’opportunità di trovare la nostra strada»«Non bloccateci con le vostre leggi».

Succedono tante altre cose nella storia di Bashiru. E la sua parabola non ha un lieto fine. Non è come in una pellicola americana dove il protagonista, dopo mille peripezie, conquista il premio agognato. Le regole di Propp non valgono per lui, perché non è una fiaba. Qui l’eroe inciampa e inciampa e, proprio quando pensava di aver trovato i suoi binari dritti su cui procedere tranquillo, la vita lo fa cadere di nuovo. La telecamera lo lascia così, di nuovo abbattuto. Ma chissà, magari alla fine per Bashiru un lieto fine ci sarà. Un lavoro, il figlio da portare a scuola, il pensiero di cosa cucinare per cena. Una vita tranquilla, anche noiosa a tratti.

Quando per strada si vedono dei ragazzi, neri, in gruppo, che parlano, si agitano, stanno lì e «non fanno niente», sarebbe bello essere capaci di vedere oltre. Di immaginare le loro storie, le mamme che li aspettano a casa e si preoccupano, i figli e le mogli che non vedono da mesi o anni, la fatica che fanno per conquistarsi una nuova vita. Le storie che li hanno portati su quella panchina, storie come quella di Bashiru.

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