Salute mentale
Chi recensisce i recensori di Sanremo?
Questa cosa di commentare Sanremo a tutti i costi sta sfuggendo di mano. È diventata ingestibile. Nemmeno uno scrolling permanente riesce a rompere il maleficio algoritmico di Zuckerberg. Una condanna. Peggiore dell’epidemia del ballo di Strasburgo, del bipensiero pentastellato, dei siparietti di Baglioni, della vis comica ossidata di Bisio, dell’intimismo zuccheroso di un Nek alla settima reincarnazione, della testarda lunghezza di ogni puntata, della sanremità platonica, irremovibile, tramontata da qualche anno a favor di contingenze indie, delle McCanzoni da martellamento radiofonico e di qualche lifting scenografico che non abbiamo potuto appurare per mancanza di pazienza.
Ci chiediamo: è il totale disinteresse nei riguardi del festival – coltivato negli anni – a fornire echi orwelliani alla nostra percezione? O è la ricezione social dell’evento a esibire effettivamente dimensioni inquietanti?
Non ce la stiamo tirando, sia chiaro. Le nostre miserie interiori potrebbero superare per distacco l’acritica adesione al commentificio sanremese. Tuttavia, a loro parziale discolpa, trascorrono gran parte del proprio tempo nella nostra testa, dove non possono nuocere ad anima viva, a riparo dall’incessante bisogno di plauso, lontane da un’urgenza espressiva che, alle volte, sa troppo di conformismo, di conformismo predatorio, per essere così urgente. O, perlomeno, amano raccontarsi in questo modo: misere, ma dalla mediocrità tutta da dimostrare, fuori concorso.
E forse sta qui il problema, nell’autoinganno. In un infastidirsi che sottende, senza volerlo ammettere, una gara di mediocrità tra un’aurea mediocritas – non quella figa dei latini – da condividere all’ennesima potenza, da innervare in una giungla di commenti sardonici, e una mediocrità introversa, scostante, corazzata, antiproiettile, tutta da dimostrare, appunto, perché inespressa, per una volta.
Sanremo, in tal senso, risulta illuminante come nient’altro. Rappresenta una sorta di calcio nelle palle introspettivo, uno spartiacque. L’isterico commentare di cui è portatore disturba chi ne è estraneo perché induce uno sguardo perturbato: la pioggia di commenti è la solita, magari in versione muscolare, ma vista dall’esterno, omofona, funge da specchio, uno specchio che siamo costretti a guardare, in cui scorgere la nostra complicità in vacanza.
Ci ricorda che la logica del “mi si vede, dunque sono”, sottofondo magico dei social network al pari del farsi ossessivamente i cazzi altrui (al secolo voyeurismo), sa ammiccare anche a noi detrattori delle pippobauditudini. E sa farlo con nonchalance. Lo fa ogni giorno. Come prima, più di prima.
La pulsione facebookiana originaria, aggirandosi nuda e cruda in questa precisa congiuntura, arriva a sbatterci in faccia, finalmente senza cerimonie, cosa stiamo diventando. Commento più, commento meno.
Sintesi: i sanremomani riflettono la nostra immagine, un’immagine con cui non vogliamo fare i conti. Se siamo fortunati, molto fortunati, riusciremo a non riconoscerci.
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