Milano
Che fine faranno i cornuti?
Se si potesse rappresentare l’orda primordiale con una fotografia, questa assomiglierebbe molto alle immagini dell’assalto a Capitol Hill. Per qualcuno è un riot, per qualcun altro è terrorismo, sicuramente è arte, e lo hanno capito i numerosi fotografi che hanno immortalato istanti che rimarranno nella impresse nel tempo. Lo ha capito anche Gary Ross, quando ha rappresentato in Hunger Games la presa da parte dei distretti di Capital City, e Bong Joon-ho, quando in Snowpiercer rappresenta l’avanzata della gentaglia verso la locomotiva: affinché la scena risulti vagamente realistica, bisogna evidenziarne la scompostezza, l’esagerazione, la rozzezza; épater le bourgeois, mostrando la crudezza di gente sdentata, vestita male e sporca. Viene da domandarsi se tutto questo abbia qualcosa a che fare con il panorama italiano.
Qualcuno ha paragonato Mario Borghezio a Jake Angeli, in quanto entrambi nella vita hanno indossato un elmetto cornuto con un significato politico; fenotipicamente possono essere paragonabili, ma il percorso che li ha portati ad assomigliare è assai diverso, in quanto parliamo in un caso di una persona che, scientemente, ricostruisce un senso di finto radicamento, con scopi identitari, mentre dall’altra parte si ha un residuato di quella galoppata neoliberale che, da un punto di vista filosofico, ha assunto il nome di “post-modernità”, nella quale è stato travolto senza aver potuto decidere nulla. Avvocato benestante il primo, sans-papier il secondo, nel senso che non avrebbe certo avuto le carte in regola per fare nulla di più di ciò che ha fatto, ossia assaltare con la violenza un luogo di potere per scattarsi qualche selfie e fare qualche battutaccia volgare. Non è nell’epifenomeno la somiglianza.
La borghesia percossa e attonita italiana guarda alle immagini ponendo distanze psicologiche abissali, le respinge nella geografia lontana e decadente di quel Paese senza Storia che sono gli Stati Uniti, e i primi a farlo siamo proprio noi professionisti liberali e solidali, noi che leggiamo il giornale, noi pagati per pensare, noi sfera pubblica, precaria, martoriata, ma in fondo capace di stare a galla più che dignitosamente. Vediamo quelle foto e proviamo disgusto, ma senza renderci conto che quello stesso disgusto è il nucleo del pregiudizio che si prova nei confronti dei poveracci di casa nostra: privi di competenze, goderecci e colpevoli della propria condizione, probabilmente erano quelli che alle elementari ci sfottevano perché alzavamo la mano, e ora ben gli sta se se la passano male; e guai se provano qui a muoversi scompostamente come accaduto a Washington.
A noi fa orrore l’idea che qualche scemo, che si è bruciato i lobi frontali negli anni ‘90 con qualche rave di troppo, ora sia mantenuto dallo Stato tramite il Reddito di Cittadinanza; e ci mette rabbia scoprire che il meccanismo di erogazione del sussidio è partito, mentre quello della ricerca attiva no, per cui non solo manteniamo lo scemo, ma gli permettiamo di non restituirci nulla. E lo stesso vale per la ragazzina che quindici anni fa si è innamorata del mafiosetto di quartiere, che ora è in carcere mentre lei ne sta crescendo, sola, il figlio; la guardiamo e pensiamo che se l’è andata a cercare, perché il nostro è un mondo che premia il merito e l’impegno, che sono determinanti individuali; la società non ha colpe, è lei che è stata un po’ puttana.
Lavorando come psicologo di comunità a Milano, ho scoperto l’esistenza di strati sociali di cui non immaginavo nemmeno la possibilità; non sono gli ultimi, su cui spesso si fonda la retorica solidaristica dei benpensanti (soprattutto sotto elezioni), non sono nemmeno ultimissimi: sono proprio estranei al mondo conosciuto. Due di questi, ho scoperto durante un’intervista, si sono presi a bastonate davanti a casa mia una notte, uno di loro è morto, ma io non mi sono accorto di nulla e sui giornali non se ne è parlato; altri vivono in villette trasformate in comuni, non mandano i figli a scuola, rivendono il cibo taccheggiato ai supermercati davanti alle mense dei poveri. Per non parlare dei vecchi che vengono trovati settimane dopo essere morti in totale solitudine, e di quante situazioni di promiscuità sessuale si trovano in famiglie di cinque o più figli che vivono nella medesima stanza.
Patti Smith cantava “people have the power to dream”, ma che facciamo se il sogno che esprime un popolo è un incubo grotesque? Se il popolo, o, meglio, il popolino esprime sogni di rivalsa, di prepotenza, di aggressione scomposta, se è invidioso e razzista, se ormai le capacità di pianificazione si sono ridotte, se il potenziale di immaginazione si è esaurito, se il cambiamento desiderato è un cellulare più costoso e un’automobile più grossa? Qualcuno ha mai verificato che il Quarto Stato abbia un pessimo odore, e che la maggior parte di noi si sposterebbe schifato vedendolo avanzare verso un rinnovato protagonismo storico?
Il punto è questo: quella gentaglia, che spesso sì, è anche sovranista, nel senso che trova un minimo di riscatto identitario solo nei discorsi di Salvini, vuole uscire dalle fogne e insudiciare il candore del dominio. Da noi è successo qualcosa di simile durante l’ascesa del Movimento Cinque Stelle, fatto salvo che, iniziato a conquistare il potere, la dirigenza occulta del partito ha capito quanto pericoloso potesse essere mandare a governare per davvero dei rancorosi paranoici. Queste persone, un tempo rabbonite da parroci e TV, ora vogliono il potere, non ci credono più che sia colpa loro se non sono come noi, non ascoltano più chi dice loro che “Anything is possible”. Vogliono i nostri privilegi, vogliono potersi lamentare di ogni cosa come facciamo noi, vogliono il nostro status, che noi disconosciamo, senza dover studiare e negoziare, senza piegare continuamente la testa, senza sguazzare nelle nostre ipocrisie; vogliono un SUV, prima che in circolo ci siano solo bici e auto elettriche, e andare a Santo Domingo, prima che, con la moda del turismo etico, scompaia come meta turistica.
Da nessuna parte, nessuna, ho visto per ora un progetto, un’idea, una riflessione, politica o accademica che sia, per questi indigeni della povertà estrema. E temo che la soluzione, qui da noi, sarà la sola che sappiamo attuare: tenerli zitti, fino a farli scomparire.
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