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Cerasa: “Una magistratura con troppo potere è un problema per la democrazia”
È da un po’ di tempo che gli facevo la corte e alla fine siamo riusciti a sincronizzare le nostre agende: Claudio Cerasa, uno dei direttori di quotidiano più giovani nel nostro Paese, ha ricevuto il timone de Il Foglio direttamente dalle mani di Giuliano Ferrara, vanta una carriera che spazia anche dalla tv alla radio. Per lui il futuro del giornalismo è ricco di opportunità, l’importante è fare informazione di qualità.
Tu sei molto giovane, già da 7 anni sei Direttore de Il Foglio, dove lavori dal 2005. A differenza di alcuni tuoi colleghi, oltre a Il Foglio e a una breve esperienza presso La Gazzetta dello Sport, hai costruito la tua carriera spaziando tra diverse realtà: la radio, la televisione, il blog e i periodici. Quale esperienza è stata più formativa, quale non rifaresti e quale invece ti sarebbe piaciuto fare?
La prima vera esperienza formativa è stata quella che ho fatto all’Università a Roma, alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dove, con un gruppo di amici, abbiamo creato un giornale mensile su carta patinata che per l’80% era autofinanziato: raccoglievamo le pubblicità in giro, attorno all’Università, facevamo i grafici, cercavamo notizie, pescavamo editorialisti in grado di creare discussioni. Un’esperienza bellissima e altamente formativa.
In questi 17 anni a Il Foglio, come è stato il tuo rapporto con Giuliano Ferrara?
Il rapporto con Giuliano è fantastico, meraviglioso. Per me e per tutti noi al Foglio è qualcosa di più di un maestro. È una persona speciale, unica, che ci ha insegnato ogni giorno a osservare la realtà senza accontentarci delle apparenze, senza restare sulla superficie, senza usare il pilota automatico, senza dimenticarci mai che per capire quello che succede attorno a noi occorre allargare sempre l’inquadratura, cercando di comprendere non solo cosa è successo, ma anche perché.
È ancora molto presente?
Ci sentiamo tantissimo, lunghe chiacchierate di formidabile cazzeggio puro, ma ci sentiamo prevalentemente al telefono, in redazione passa raramente, ma quando passa è una festa.
Il Foglio è un giornale sui generis, a partire dal suo aspetto. C’è differenza anche nel lettore, rispetto ai lettori degli altri quotidiani?
Penso che il nostro sia un lettore speciale che ha voglia di confrontarsi con un giornale che non fa solamente informazione, ma che prova a fare anche “formazione”, cercando di provocare delle reazioni, cercando di far riflettere il lettore, andando al cuore delle questioni, senza tanti fronzoli, ma con qualità. Non credo che il nostro lettore si possa facilmente incasellare in una categoria politica, ma è un lettore che ha idee forti su molti temi e condivide, con gli altri lettori del Foglio, l’appartenenza ad una comunità, intesa non in maniera astratta e retorica, ma una comunità che combatte su alcuni temi precisi, come atlantismo, europeismo, garantismo, anti-comunismo, e la capacità di osservare la politica non nella sua staticità, ma nella sua abilità di trasformarsi ed evolversi e di adattarsi ai tempi che cambiano.
Anche tuo padre è un giornalista, nota firma di Repubblica, ha iniziato la carriera a L’Ora di Palermo, proprio negli anni bui della cronaca di mafia. Quale insegnamento ti ha dato? quando ti sei avvicinato al giornalismo?
Mi sono avvicinato al giornalismo fin da bambino quando, alle elementari e alle medie, andavo a sbirciare le riunioni di mio padre allora a Repubblica: ne ero affascinato mi piaceva tutto, mi piaceva la possibilità di offrire un contributo nel raccontare il mondo, mi piaceva l’adrenalina che si respirava, mi piaceva il ticchettio sulle tastiere, mi piaceva lo sguardo dei giornalisti quando parlando in redazione accendevano una lampadina, trovavano un punto, capivano di avere in mano una notizia. Scrissi il mio primo articolo a 14 anni sul mensile della provincia di Palermo, fui immerso nel giornalismo fin da piccolissimo, un po’ come capita ai neonati alla loro prima esperienza nell’acqua: ti buttano in piscina e devi imparare a nuotare.
Dall’uscita del tuo libro “Abbasso i Tolleranti” nel 2018 ad oggi c’è di mezzo una pandemia e una guerra, come si sono evoluti i tolleranti e gli intolleranti?
Secondo me si sono evoluti bene, all’epoca si era nella stagione del populismo imperante ed egemone, c’era nell’aria uno spirito di sonnambulismo generale, c’era una classe poco dirigente e molto digerente. La pandemia prima e la guerra poi hanno avuto shaker. Hanno creato responsabilizzazione e hanno costretto i sonnambuli a fare spesso una scelta che avevano scelto di non fare: decidere da che parte stare. I tolleranti hanno smesso di essere tolleranti di fronte alle intolleranze, come suggeriva Popper nel suo magnifico saggio “La società aperta e i suoi nemici” e grazie a questa intolleranza, dei tolleranti di fronte agli intolleranti, esiste un mondo che va verso una direzione di maggiore responsabilità e di una maggiore consapevolezza di quali sono i principi che non si possono negoziare. E quindi no. Uno non vale uno, uno scienziato non vale come uno sciamano, le alternative alla democrazia rappresentativa non sono alternative percorribili, le dittature non funzionano meglio delle democrazie rappresentative e questo ragionamento vale per una certa misura anche per i giornali e per tutti coloro che fanno informazione. Fino al 2018/2019 viveva l’idea che chiunque scrivesse qualcosa su una qualsiasi piattaforma on line potesse valere come un’informazione che invece si trovava su un sito o su una testata registrata e filtrata da un direttore responsabile. Dopo la pandemia e dopo la guerra, la ricerca di informazioni accurate e verificate, garantite dalla presenza di un responsabile, è stata un qualcosa che ha responsabilizzato i giornali e le testate on line, creando una nuova opportunità per chi si occupa di produrre contenuti giornalistici.
A più di 100 giorni dalla guerra, ci stiamo abituando alla guerra e corriamo il rischio di dimenticarcene, come è successo per l’Afghanistan, la Siria e tutti gli altri conflitti che continuano, ma dei quali non si parla quasi mai.
La mia opinione, come dimostrano i due casi che hai citato, l’Afghanistan da una parte e la Siria dall’altra, è che l’Occidente e le democrazie liberali hanno prestato il loro fianco, hanno offerto ragioni per far sì che democrazie illiberali e regimi totalitari proliferassero. Non è vero, come sostiene qualche utile idiota, che le azioni illiberali, violente, commesse dai nemici dell’Occidente si manifestano in seguito ad una provocazione dello stesso Occidente. Non è vero che l’11 settembre nasce perché l’Occidente ha provocato gli islamici con le sue colonizzazioni. Non è vero che il Putin che invade un Paese democratico reagisce ad un’espansione dell’Occidente. Non è vero che un nazionalista che agisce in modo violento lo fa perché è stato costretto a farlo. È vero invece che vi sono nazionalisti che commettono delle azioni criminali spinti da una propria ideologia, dalla volontà di agire, non dalla volontà di reagire. L’occidente commette un errore non quando cerca di difendere i suoi ideali, non quando cerca di combattere i totalitarismi, ma quando sceglie di non farlo, quando sceglie di arretrare, quando sceglie di disimpegnarsi, quando sceglie di chiudere gli occhi. È stato così in Siria, quando l’occidente ha scelto di non combattere Assad. È stato così in Afghanistan, quando l’occidente ha scelto di fuggire dalle sue responsabilità. È stato così in Ucraina. E dal 2014 a oggi, dall’invasione della Crimea all’invasione del Donbass, l’occidente, in quel contesto, ha commesso un errore preciso: ha deciso di sottovalutare la minaccia russa, prestando il suo fianco all’azione criminale di un dittatore sanguinario.
Indipendentemente dal raggiungimento del quorum e quindi dall’esito del referendum, perché secondo te il sistema giudiziario ha bisogno di una riforma? Qual è l’urgenza più impellente?
Il sistema giudiziario ha bisogno sicuramente di riforme capaci di far diminuire il peso delle correnti della magistratura, riforme che possano permettere al potere legislativo di non essere costantemente ostaggio del potere giudiziario. Il sistema ha quindi bisogno di avere una vera separazione dei poteri, di avere riforme che non permettano ad un magistrato di indagare chiunque sulla base di teoremi e non di prove. Giovanni Falcone diceva che la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità ma è l’anticamera del khomeinismo. Questo è ciò che dovrebbe cambiare. Questo è ciò che dovrebbe essere cambiato. Questo è ciò che dovrebbe essere insegnato alle nuove generazioni. Perché prima ancora delle riforme il punto vero è questo: in Italia ci dovrebbe essere una grande svolta culturale che dovrebbe venire dall’interno della magistratura, le riforme sono sicuramente importanti per gli equilibri del sistema, ma se non saranno i magistrati a capire quali sono i limiti che loro stessi devono porsi, senza capire che è un problema per la democrazia avere una magistratura che ha troppo potere, che non si sa autocontrollare e che vede qualsiasi valutazione esterna come lesa maestà, senza capire tutto questo il nostro Paese, dal punto di vista giudiziario, è completamente fottuto. Un elemento di ottimismo però c’è. Non tanto nel referendum, dove il problema, rispetto ai quesiti sulla giustizia, non è stato un complotto organizzato contro il referendum, ma è stato l’autocomplotto organizzato dalla Salvini e Associati, perché la Lega, come ha ricordato lunedì l’avvocato Gian Domenico Caiazza, non ha mai nemmeno depositato le firme raccolte, perdendo così il diritto alle tribune referendari e perché la stessa Lega che, nei giorni pari si presenta come garantista, nei giorni dispari invita a buttare le chiavi di chi si trova in carcere. L’ottimismo non è qui, ma è in un piccolo dettaglio sfuggito a molti: quando l’Anm, qualche settimana fa, ha convocato lo sciopero generale dopo tanti anni, solamente il 48% degli iscritti ha scelto di aderire. Una percentuale infinitamente più bassa rispetto all’85 per cento delle adesioni raccolto 12 anni fa, ai tempi dell’ultimo sciopero generale.
Concordi col fatto che gli elettori moderati, diciamo di centro destra, giusto per dargli una collocazione, oggi non si sentono propriamente rappresentati o siano un po’ disorientati?
Penso che questo sia un problema che accomuna molti elettori di centro destra, nonostante si trovino di fronte a molte alternative di scelta tra populismi incipriati, com’è oggi la Lega di Salvini o Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, e i ridotti rappresentanti del riformismo Europeista, come la realtà di Forza Italia, che ha comunque ancora un suo peso. La scommessa è far nascere un contenitore in grado di aggregare forze politiche in cerca di una nuova identità anti populista, capire se questo contenitore riuscirà a svilupparsi e a fare concorrenza alle attuali forze di centro destra. Un’aggregazione che si collochi in una posizione centrale dello schieramento, la destra oggi è come diceva un tempo Metternich sull’Italia: solamente un’espressione geografica. Gli elettori ce li ha, e anche tanto, quel che manca mi sembra che siano eletti in grado di dare soddisfazioni ai propri elettori, capaci di dimostrare di essere in grado non solo di gestire una campagna elettorale ma anche un governo.
Calenda aspira all’unione di forze di centro che raggiungano l’8% (anche senza Renzi) questo comporterebbe un accordo tra PD e centro destra per continuare con Draghi Presidente del Consiglio. Sei d’accordo?
Non è semplice come qualcuno sostiene, ma in una condizione di maggioranze non definite potrebbe anche manifestarsi questo scenario. E se così dovesse essere vi sarebbero probabilmente anche dei traumi, all’interno dei partiti, capaci di generare una scomposizione, oggi non ancora immaginabile. Quello che è interessante in questa nuova fase è un bipolarismo di fatto che si sta producendo tra la sinistra modello Letta e una destra modello Meloni, realtà distanti che però condividono un perimetro di non belligeranza comune.
Qual è secondo te il futuro del giornalismo?
È un futuro fatto di grandi opportunità. E in un momento in cui tutti sono alla ricerca di idee, di sostanza, di storie è necessario trovare un modo nuovo per offrire contenuti all’altezza delle aspettative, sapendo che la vera sfida del presente è quella di far arrivare un’informazione di qualità attraverso tutti i canali possibili, compresi quelli non convenzionali. È un momento di grandissima adrenalina e di grandi trasformazioni che costringono tutti gli addetti ai lavori a costruire nuovi percorsi, essendo coscienti però che non è il mezzo che fa il messaggio, ma è lo stesso messaggio che deve utilizzare il mezzo per amplificare al meglio ciò che ha al suo interno. In sostanza: ciò che conta non è il megafono, ma la qualità di ciò che viene fatto. Sono convinto che questa sia la vera scommessa dei giornali, riuscire ad essere all’altezza delle aspettative, sapendo che le platee non si restringono ma si ampliano, in maniera non convenzionale. Perché non esiste una platea generalizzata, un unico grande pubblico, ma esistono tante micro platee che devono essere sollecitate nel modo più innovativo, nel più breve tempo possibile, coinvolte, coccolate, motivate.
Qual è il tuo parere in merito ad alcuni talk show, dove il confine fra informazione è spettacolo è molto labile?
Esistono varie modalità di informazione. Esiste un modello informativo che sceglie di presentarsi ai propri telespettatori mostrando con chiarezza il proprio punto di vista, senza ambiguità. Un modello, per capirci, che sceglie, come dicevamo prima, di non considerare uno sciamano valido sulla scienza come uno scienziato. Un modello, per essere ancora più chiari, che decide di combattere la disinformazione, e non di assecondarla. Durante la pandemia, chi ha fatto una scelta di campo di questo tipo è stato per esempio Fabio Fazio, che coraggiosamente ha scelto di non dare mai spazio alle voci anti-scientifiche. Purtroppo, in molte occasioni, i talk show fanno scelte di un altro tipo: spacciano la propria volontà di dar voce a tutto e a tutti, anche alla propaganda, come un dovere dettato dalla necessità di essere pluralisti. Il pluralismo è prezioso ed importante e non bisogna mai aver paura delle idee che non ci piacciono. Ma ci sono alcuni contesti speciali all’interno dei quali dar voce alle menzogne, alle falsità, alle balle, alla propaganda significa fare una scelta di campo, significa legittimare alcune idee, significa fare un passo lontano dalla buona informazione e per farne uno vicino all’informazione circense. Non si può polarizzare tutto. Non si possono mettere tutte le posizioni sullo stesso piano. Non si può spacciare la volontà di alimentare la propaganda per dovere di pluralismo. Alcune trasmissioni hanno scelto di essere più che delle arene qualcosa di simile ad uno zoo. Ma tra le trasmissioni che non fingono di essere imparziali e quelle che fingono di essere imparziali c’è un abisso. L’abisso tra chi vuole far spettacolo, e lo dice, e tra chi fa spettacolo fingendo di fare informazione. Ogni scelta è legittima, per carità, ciò che non è legittimo è spacciare per cioccolato prelibato tutto ciò che ha anche lontanamente un colore simile. Formare, non solo informare. L’innovazione dell’informazione del futuro, forse, passa anche da qui.
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