Germania

Ce l’abbiamo fatta? Beh, sì (5 anni di accoglienza dei profughi in Germania)

1 Settembre 2020

Wir schaffen das!” (Ce la facciamo), dichiarò Angela Merkel nella storica conferenza stampa del 31 agosto 2015, quando in piena emergenza profughi, dopo la chiusura della rotta balcanica, annunciava l’intenzione di aprire le frontiere ed accogliere le grandi masse di persone in cerca d’asilo che si ammassavano ai confini dei Paesi dell’Europa Centrale ed Orientale.
La frase è rimastica storica.
Ce la facciamo, e non, ce la faremo o possiamo farcela. Presente indicativo, prima persona plurale. Quel wir, noi, per la Cancelliera non era una falsa modestia per definire se stessa o il proprio governo, ma significava davvero tutti. Governo ed opposizione, Stato, Länder ed enti locali, corpi intermedi, organizzazioni sociali, cittadini. L’intero Paese, insomma.

Cinque anni dopo quel 31 agosto 2015, si può cercare di verificare se davvero wir es geschafft haben, se ce l’abbiamo fatta.

Prima di ogni analisi credo però sia necessario non dimenticare il dato umanitario. Centinaia di migliaia di persone, in condizioni drammatiche, molti di loro già in Europa, venivano respinte da Paesi membri dell’Unione Europea, il gruppo di Visegrad, ma non solo. Cosa sarebbe stato di queste persone, nell’inverno del 2015-2016, se non fossero state accolte in Germania? Questa domanda continua ad essere sottovalutata. Credo sia onesto dire che l’apertura delle frontiere tedesche nel settembre del 2015 ha salvato la vita a migliaia di uomini, donne, bambini.

Più complessa è l’analisi dell’intera gestione della cosiddetta emergenza profughi nei cinque anni che sono seguiti alla decisione del governo tedesco, decisione, ricordiamolo, presa non senza difficoltà e conflitti interni al governo stesso, con grandi perplessità (se non contrarietà) da parte della “destra della CDU” rappresentata dal Ministro degli Interni Thomas de Maizière e della compagine ministeriale della CSU.
Partiamo dai numeri. Già nei quattro mesi successivi alla decisione, entrano in Germania 890.000 persone in cerca di asilo; alla fine del 2016 saranno 1.100.000, all’inizio del 2020 1.800.000. Di questi circa la metà sono minorenni. I rifugiati vengono distribuiti nei sedici diversi Bundesländer secondo il cosiddetto Königsteiner Schlüssel, lo stesso algoritmo su cui si basa il federalismo fiscale: i Länder più ricchi devono gestire un numero maggiore di rifugiati, proporzionalmente alla popolazione; scelta, questa, che si rivelerà oculata, non solo per una questione di risorse, ma anche in considerazione della crescente xenofobia dei Bundesländer della ex-DDR.
Sono poi gli stessi Bundesländer a distribuire i profughi tra i diversi comuni.

È questa l’inizio della Willkommenskultur, la cultura dell’accoglienza. Perché una volta nelle città, non si tratta solo di dare ad esseri umani un tetto e un pasto caldo, ma di organizzare tutti gli aspetti della vita di persone, destinate a trattenersi nel Paese per anni, se non per sempre. Corsi di lingua e di cultura, corsi di formazione professionale, inserimento dei bambini e dei giovani nelle scuole, progetti culturali, partecipazione ad attività culturali e ricreative. Tutto questo funziona attraverso il coinvolgimento delle realtà locali, sia istituzionali che associative.
Il “pacchetto” straordinario di finanziamenti per l’emergenza, inserito nel bilancio 2016, fu di 26 miliardi, cifra simile a quella di quattro dopo per l’emergenza Covid. Diversi studi stimano tra  100.000 e  200.000 il numero di posti di lavoro creati per gestire l’accoglienza.

Allo stesso tempo, però, cresce la xenofobia. Il partito AfD, nato due anni prima come “partito contro l’Euro”, decide di focalizzare la propria politica quasi interamente contro l’accoglienza. In diverse zone della Germania (non soltanto ad est) crescono gli attacchi ai centri d’accoglienza o contro gli stessi migranti.

Dopo cinque anni gli indicatori principali testimoniano una realtà più che incoraggiante. Circa il 15% del totale dei profughi ha raggiunto il livello di tedesco B1. Nelle scuole, secondo uno studio dell’Istituto Tedesco per la Ricerca Economica, l’80% dei figli dei rifugiati si trova bene ed il 90% parla correttamente il tedesco. A gennaio 2020 sono 360.000 i rifugiati con un lavoro stabile. Molti dei 450.000 registrati all’Agenzia del Lavoro come “in cerca di lavoro” stanno seguendo corsi di formazione o di integrazione.
Numerosissimi sono i progetti culturali ed associativi, le start-up, le iniziative sociali che coinvolgono i profughi; non pochi sono gli “esempi di eccellenza”, di giovani profughi che praticano sport ad altissimo livello o che hanno fondato imprese.

Ovviamente ci sono state situazioni problematiche. Oltre ai singoli casi di microcriminalità e soprattutto, oltre ai gravissimi casi di violenza in cui è stata dimostrata la colpevolezza di rifugiati, non può essere trascurato l’impatto, anche visivo, di alcune categorie di profughi nelle città. Nonostante i comuni abbiano spesso gestito la situazione suddividendo i rifugiati in piccoli centri d’accoglienza o in appartamenti, non era raro, soprattutto nei primi due anni, il formarsi in alcuni luoghi grandi gruppi di giovani (tra i 15 e i 30 anni), di sesso maschile. Persone, non deve essere dimenticato, spesso sole, senza legami di parentela o di affetto, spesso con traumi personali, in un mondo completamente diverso da quello di origine. Questa mascolinizzazione di alcuni luoghi di ritrovo è stata una delle sfide maggiori per gli operatori sociali  – e a volte anche per le forze dell’ordine – nelle città.

Già, le città. Quali sono stati gli effetti sulle città? A Friburgo, la città in cui vivo, risiedono ora circa 5000 profughi, che rappresentano quasi il 2% dei circa 230.000 abitanti della città. Di questi oltre la metà vive in appartamenti, il che, in una città in continua crescita demografica e con un’enorme carenza di abitazioni, mostra il livello della sfida. I rimanenti vivono nei 13  diversi centri di accoglienza dei 22 che sono stati approntati nelle diverse parti della città; costruire centri di accoglienza elementari, ma di buona qualità, in quartieri diversi, possibilmente in zone della città prive di problemi sociali (nei quartieri “bene”, si può dire), è stata una delle scelte più riuscite.


Anche in questo caso i dati relativi all’integrazione sono più che soddisfacenti: più della metà degli adulti hanno un lavoro stabile; tra i cosiddetti Azubi (giovani con il contratto di apprendistato) addirittura il 10% sono rifugiati.

Anche in questo caso lo sforzo del comune è stato evidente: 50 milioni sono stati inseriti nel Bilancio del 2016 ed l’allora creato Dipartimento Migrazione ed Integrazione conta ora 170 dipendenti, oltre due terzi di questi assunti dal comune negli ultimi anni.

Infine, due narrazioni ricorrenti devono essere smentite.
La prima è una vera e propria bufala, piuttosto diffusa in Italia: la Merkel si sarebbe scelta solo i profughi di alto livello, “gli ingegneri elettronici di Damasco” (sic). A parte il fatto che non era nota una tale concentrazione di ingegneri nella capitale siriana, sono i dati a smentire la fake: i Siriani non più di un terzo dei quasi due milioni di rifugiati accolti in Germania negli ultimi cinque anni.
L’altra accusa, più sottile, diffusa anche a sinistra e nella stessa Germania, incolpa la Merkel ed il suo governo di aver favorito il rafforzarsi del partito di estrema destra AfD. Tale accusa è quantomeno strampalata: innanzitutto è già ben strano accusare un politico di avere effettuato scelte ideali, programmatiche ed umanitarie a scapito del risultato elettorale (di solito ai politici viene rimproverato l’esatto contrario); soprattutto anche in questo caso sono i numeri a smentire la critica: il successo della AfD, che si assesta tra il 10% e il 14%, è certo preoccupante, ma in altri Paesi europei, dove il numero di rifugiati accolti è di gran lunga inferiore a quello della Germania, i partiti di estrema destra e razzisti raccolgono percentuali ben superiori. Non solo nei Paesi dell’ex Europa Orientale.

Insomma, nonostante le difficoltà e i problemi, il Paese ha dimostrato che sì, ce l’abbiamo fatta.
Sarebbe interessante immaginare quale sarebbe la situazione ora in Europa, se anche altri Paesi avessero intrapreso questa strada.

 

 

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