America
“Berta se hizo millones”, intervista per Berta Cáceres con Anna Camposampiero
Berta Cáceres era una attivista per l’ambiente e femminista honduregna, vilmente uccisa la notte del 2 marzo 2016. Da allora nel silenzio internazionale la situazione in Honduras è andata solo peggiorando. Per Berta la lotta doveva rivolgersi contro la triplice dominazione di capitalismo, razzismo e patriarcato; nonché per l’uguaglianza di genere e i diritti LGBTQ+. Cerchiamo di approfondire questa eroina moderna con Anna Camposampiero esponente del comitato Berta Vive Milano ed esperta del Sudamerica.
Cos’è accaduto a Berta Cáceres e perché?
Berta è stata uccisa perché era riuscita a formare una resistenza, una lotta degli indigeni Lenca di cui anche lei faceva parte, contro le prepotenze e le violenze a loro rivolte nel tentativo di imporre la costruzione di tre dighe sul fiume sacro Gualcarque, tra l’altro nel mancato rispetto delle convenzioni¹. L’assassinio è stato eseguito da un sicario in casa sua, dove nonostante le molteplici minacce di morte non aveva alcuna protezione. Si pensava che il premio Goldman per l’ambiente potesse portarle maggiore tutela dovuta alla notorietà internazionale, non è stato così. Anzi, molti altri attivisti ecologisti insigniti di questo riconoscimento sono stati uccisi a dispetto della visibilità ricevuta. Ad oggi, dopo anni di indagini farsesche gli unici indagati sono i presunti esecutori materiali del delitto, militari addestrati nelle scuole israeliane o USA. Quello che manca è qualsiasi riferimento ai mandanti intellettuali, si crede siano una delle grandi famiglie latifondiste del paese, gli Atala. Questi avevano delle partecipazioni nella DESA, l’azienda incaricata di costruire le dighe, ma non dimentichiamo che la DESA ha anche capitali di casa nostra, a partecipazione europea e che molte aziende italiane come Colacem, Astaldi e Acea sono attive nel Paese.
Le dighe sono poi state completate? Qual è la situazione oggi delle lotte portate avanti da Berta?
Le dighe alla fine non sono state costruite, però le pressioni e le repressioni delle proteste indigene, ma anche verso tutte le minoranze, rimangono e le modalità sono spesso mafiose e avvengono con l’appoggio dei militari. Inoltre questo si interseca con la terribile corruzione del governo honduregno. Nelle scorse elezioni, nel novembre del 2017, i sondaggi davano in vantaggio Nasralla. Per avere il risultato del voto si è dovuto aspettare quattro giorni ad urne chiuse e alle fine ha vinto il candidato di destra, Juan Orlando Hernandez, con il beneplacito dell’ambasciatore statunitense e il riconoscimento del nostro ministro degli esteri Alfano. La morte di Berta non ha fermato le sue battaglie che anzi hanno conosciuto nuova vitalità e notorietà in tutto il mondo: una delle sue figlie, Bertita, ha preso il posto della madre nel COPINH, co-fondato proprio da Berta nel ’93, e un’altra si è impegnata in politica con l’opposizione di Libre. Ogni anno si ricorda la morte di Berta nel giorno della Siembra, il giorno della semina, del ritorno alla terra: si dice “Berta no se muriò, Berta se hizo millones, Berta soy yo”. Credo che la lotta di Berta sia largamente condivisibile, eppure questo consenso viene a mancare quando volgiamo l’attenzione a proteste sul nostro territorio e vediamo i dimostranti trattati come se fossero dei molesti facinorosi, in particolare nel caso della decennale lotta NOTAV.
L’Honduras nel 2009 ha subito il primo di quelli chiamati colpi di stato blandi, si può collegare con quello che sta accadendo da gennaio in Venezuela?
L’Honduras si è sentito nominare più recentemente per la carovana della speranza, ma anche questa migrazione è un fenomeno diffuso che c’è da molti anni, la decisione di unirsi oltre che per la visibilità è stata presa per evitare di finire preda dei rischi violenti della marcia. Il motivo scatenante la rimozione coatta di Manuel Zelaya fu proprio la sua volontà di aderire all’ALBA², un modello proposto da Chavez. La situazione in Venezuela è forse ancora più aggressiva che nel 2009 in Honduras. È tutto architettonicamente costruito per provare a far cedere il Paese, assomiglia molto alla situazione che precedette il colpo di stato in Cile che si legge sui documenti ora desegretati: abbiamo le sanzioni, un pretesto costituzionale, le pressioni internazionali e della classe borghese. Il vero motivo per cui Maduro resiste è che l’esercito è dalla sua parte. Anche il popolo è ancora dalla sua, finché non sarà del tutto strangolato dalle sanzioni che hanno come obiettivo la guerra civile, una situazione fin ora evitata perché comunque temuta dalla piccola borghesia. Se il golpe riuscirà allora finirà come in Honduras: ci saranno delle elezioni che saranno salutate come il ritorno alla democrazia e si procederà con la privatizzazione e l’esproprio delle risorse del paese.
Tutto è parte di un sistema e le battaglie specifiche sono in realtà proteste a più ampio respiro, verso l’imperialismo che è il figlio prediletto del capitalismo moderno. Ma il capitalismo ha anche altre manifestazioni contro cui Berta lottava, il patriarcato.
Il patriarcato è il modo in cui il capitalismo prende forma nella realtà di tutti i giorni. Il capitalismo ha bisogno di gerarchie e queste gerarchie sono state mutuate dal passato e pian piano si sono evolute in forme meno evidenti ma non sono mai scomparse. Non è un caso che le file dei combattenti, anche nelle vere e proprie guerre del Medioriente, vedano una grande partecipazione femminile negli ultimi tempi. Le donne subiscono le violenze in misura maggiore degli uomini: in molti paesi lo stupro è stato spesso un’arma di guerra. Ma anche qui da noi sono visibili a tutti i continui attacchi al diritto di abortire, o il DDL Pillon che decostruisce il divorzio. Spesso l’errore è pensare che ormai le differenze si siano appianate e che si viva in una società matura dove tutto stia al merito e alle capacità individuali. Ma questa è un’idea che si è sviluppata con l’egemonia del pensiero liberista, dagli anni ’80 in poi. Non è un caso che esista proprio una generazione di femministe “perdute” corrispondente a quegli anni. Il patriarcato se si sta attenti non è difficile da notare. Oltre ai quotidiani casi di femminicidio, basta accorgersi del maschilismo endemico nel linguaggio o nei modi di fare anche ingenuamente sessisti degli uomini. Qualsiasi donna li avrà sperimentati. Ma anche sul lavoro questa fittizia uguaglianza è evidente quando al colloquio ti chiedono “Sei fidanzata? Vorrai avere figli?”, domande la cui risposta andrà ad influire sull’assunzione. È una disparità di trattamento che si collega all’evidente necessità per il capitalismo di una scala gerarchica, dove spesso le donne sono sfavorite e poste in scarsa considerazione, proprio perché la gerarchia è patriarcale. Un ragionamento cardine che era portato avanti da Berta è l’intersezionalità delle lotte, per il quale non c’è differenza tra lotta per l’emancipazione femminile o di genere e la lotta di classe dei lavoratori, ma gli argomenti si intersecano ed è sbagliato affrontarli speratamene.
Anche Berta è stata vittima di un femminicidio, ma in vita è stata una figura femminista di spicco, una grande combattente sinonimo di speranza. Domani (oggi N.d.A.) c’è lo sciopero generale dell’8 marzo, “Lotto marzo”, proprio contro il patriarcato e il capitalismo. Ci può essere una speranza di una presa di coscienza di classe che parta proprio dalle donne?
Questo è auspicabile, ed è uno degli obiettivi di questa manifestazione: “Contro il patriarcato e il capitale sciopero femminista globale”. Tutto il comitato Berta Vive Milano sarà in piazza insieme a “Non una di meno” di Milano, un movimento nato in Argentina come “Ni una menos” e poi diventato internazionale. Non è un caso che la sua origine sia in Sudamerica dove sono proprio le donne che vivono i soprusi maggiori, e dove spesso mancano i diritti che noi diamo per acquisiti. In Argentina appunto si sono ottenuti molti risultati, anche se la legge dell’aborto non è passata e abortire rimane un crimine penale. La strada da fare è lunga. Alla marcia del 2 marzo contro le discriminazioni e il razzismo abbiamo partecipato in maniera indipendente, il proclama degli intenti era fine a se stesso e propedeutico a nulla che potesse portare poi a sviluppi politici concreti. Bisogna prendere atto che è tutto collegato, capitalismo, patriarcato, razzismo. Ma con la mutazione genetica dei partiti di sinistra e con la cultura del lavoro attuale accorgersi non è facile nemmeno per persone che si ritengono di sinistra, e spesso senti proprio loro lamentarsi dei disagi di uno sciopero. Va rifondato l’elemento culturale della coscienza di classe e della protesta, e c’è questa speranza, sì, che le donne siano coloro da cui parta una presa di coscienza maggiore contro il sistema capitalistico e che possa poi estendersi anche a tutti gli altri lavoratori e oppressi.
Speriamo che con l’esempio di Berta e di molte altre donne ispirate a lei le coscienze possano muoversi e si possa tornare a lottare uniti contro questo sistema economico e culturale che porta tante difficoltà, da noi come in paesi lontani e nel silenzio dell’opinione comune.
¹In particolare si fa riferimento alla Convenzione ILO 169 sui diritti dei popoli indigeni e tribali, sottoscritta dall’Honduras. Berta è diventata anche simbolo della campagna STOP-ISDS.
²Alleanza Bolivariana per le Americhe, un modello di integrazione basato su un commercio più equo e sull’integrazione regionale, proposto da Chavez.
Devi fare login per commentare
Login